Per valutare l’intensità luminosa di una sorgente di luce (si tratta di un’energia emessa ogni secondo in una data direzione e secondo un cono di ben preciso angolo di apertura), si ricorre al confronto con una sorgente di riferimento (campione): in Francia si impiegava il becco Carcel (1800), la sorgente di una lampada ad olio azionata da un motore a orologeria inventata dall’orologiaio Bertrand Guillaume Carcel all’inizio del XIX secolo allo scopo di mantenere costante l’alimentazione dello stoppino (era una lampada costosa che solo pochi si potevano permettere); in Inghilerra era in uso la candela inglese; in Germania la candela Hefner (1884). Anche le unità di misura erano diverse: bougie fr; candle ing.; Kerze ted., tutte nel significato della nostra candela (dal lat. candēla, da candēre – splendere). Per la determinazione pratica ci si avvaleva di strumenti detti fotometri tra cui quello di Bunsen del 1840, uno dei primi, ideato dal chimico tedesco Robert Bunsen (1811-1899). Il principio di funzionamento si basava sulla impossibilità dell’occhio umano di stabilire, tra due sorgenti luminose, quella con la maggiore intensità di luce, mentre è capace di riconoscere la differenza delle loro proiezioni luminose su due superfici simili e dello stesso colore.
Per cercare di uniformare le misure dei vari Stati, alla Conferenza Internazionale di Parigi del 1883 venne adottato il Campione Voille (proposto nel 1881 e che sarà impiegato per circa un secolo fino al 1984), ben definito e non legato alla composizione della fiamma, dipendendo esclusivamente dalla luce emessa dal platino fuso in precise condizioni. Tuttavia, non essendo tale campione di facile realizzazione, si impiegava abitualmente il campione Vernon-Harcourt, detto anche candela decimale in quanto pari a un decimo del campione Carcel e alla ventesima parte del Campione Voille.
Nel 1909 la Commissione Internazionale di Fotometria (CIP), dopo aver definito il campione luminoso di una lampada elettrica a incandescenza, costruita e fatta funzionare secondo norme precise, decise che tutte le misure esistenti si sarebbero uniformate,ma il cambiamento sperato non avvenne. Nel 1921, la Commissione Internazionale dell’Illuminazione (CIE) decise di chiamare questa nuova unità candela internazionale. Non tutti i paesi aderirono così nel 1948 la Nona Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure (CGPM) definì la candela o nuova candela, l’unità di misura dell’intensità luminosa nel sistema internazionale delle unità di misura (SI) . Al decimo CGPM del 1954 venne introdotta la candela quale sesta unità fondamentale, dopo il metro, il kilogrammo, il secondo, l’ampere per l’intensità di corrente elettrica e il kelvin per la temperatura.
Nel 1967, il tredicesimo CGPM abrogò il termine nuova candela per consentire solo la parola candela (simbolo cd).
Per i fari marittimi
hanno importanza le portate, ovvero le distanze alle quali i fari
possono essere avvistati:
Portata luminosa
(luminous range),
la massima distanza alla quale la
luce del segnalamento è
visibile e che dipende dalla intensità
luminosa (cd) della
sorgente, dalle condizioni di visibilità dell’atmosfera e,
naturalmente, dalla soglia di visibilità dell’osservatore.
Non si tiene conto
dell’altezza della sorgente in quanto essa può
subire cambiamenti proprio legati alla sua posizione rispetto
all’orizzonte: un faro basso
sull’orizzonte potrebbe avere una portata luminosa maggiore in
presenza di particelle di vapore acqueo a
quote basse che disperdono
il fascio luminoso rendendone
visibile la struttura a
maggiore distanza, oltre
l’orizzonte. Un fenomeno
noto in ingl. come loom
of the light
(loom
è telaio) e nel
nostro linguaggio
marinaro come scopa.
Secondo
le raccomandazioni
IALA, la portata
luminosa è determinabile
con la formula
di Allard (Allard’s law)
proposta nella prima metà del ‘900 dall’omonimo fisico franceseM.
Allard. Si tratta di una
formula che lega l’illuminamento
prodotto su una superficie normale ad una data distanza da una
sorgente puntiforme di luce, l’intensità luminosa
e il grado di trasparenza dell’atmosfera
Portata nominale (nominal range), secondo standard internazionale è la massima distanza dalla quale può essere avvistata una luce, quando la visibilità meteorologica (o trasparenza atmosferica) è di 10 miglia nautiche (corrispondente ad una trasmissione del 74%) e con un illuminamento all’occhio dell’osservatore di 2 x 10-7 lux di notte e 1 x 10-3 di giorno. Apposite tabelle permettono di correggere il valore di portata in relazione alla visibilità del momento
Portata geografica (geographic range): è la massima distanza dalla quale può essere avvistata una luce, limitata solo dalla curvatura della terra e dalla rifrazione nell’atmosfera e dalle altezze dell’osservatore e della luce.
Un’idea della visibilità notturna dei fari del ‘700 si può ricavare dal diario compilato dall’ingegnere britannico John Smeaton (1724 – 1792) durante la costruzione dell’omonimo faro (Smeaton’s Tower) nel 1759, in cui si legge che quando di notte si trovava a bordo del Neptune Buss, la nave con cui percorreva la distanza di 11 miglia da Plymouth a Eddystone (l’originaria posizione della Torre fino al 1870 e dove fu poi realizzato nel 1882 il faro di Eddystone, ancora oggi attivo), dalla costa di Plymouth poteva vedere la luce del suo faro con una intensità luminosa paragonabile a una stella di magnitudine 3 o 4 (le stelle più deboli visibili nei centri urbani). A ciò dobbiamo aggiungere che all’epoca le luci erano fisse perciò meno distinguibili.