Smack, barca tradizionale inglese

Smack, tradizionale imbarcazione da pesca (in ingl. trawler, peschereccio) utilizzata al largo delle coste della Gran Bretagna e di quelle sull’Atlantico del Nord America, per la maggior parte del XIX secolo e, in ridotto numero, fino alla Seconda Guerra Mondiale. Come per altre imbarcazioni inglesi, tra cui il cutter, la sua origine si fa risalire al Seicento quale influenza della costruzione navale dei Paesi Bassi ma con una evoluzione verso forme decisamente più adatte al mare aperto. Il significato etimologico, infatti, deriverebbe dallo smak olandese che è lo schiaffeggiare una superficie piana con la mano, che probabilmente ricorderebbe il suono prodotto dalle vele, un termine che comunque si ritrova in altre lingue dell’area come il tedesco smacken, schiaffo.

Analogamente ai cutter e agli sloop anche gli smack erano armati di randa aurica e controranda, trinchettina e fiocco, con forme simili dello scafo ma più piene, poppa a specchio ed asta di fiocco retrattile.

Fino a circa metà dell’800 erano piccole unità, successivamente si incominciarono a costruirne altre con scafi più grossi forniti di albero di mezzana, simili al ketch e in qualche caso armate di gabbiola.
Negli anni cinquanta del ‘900 alcuni smack vennero corredati di motore, altri furono trasformati per il diporto, mentre le imbarcazioni più grandi svolsero il compito di navi scuola.

Nella terminologia classica italiana erano indicate con diversi nomi: semalo, semacco, smacco indicativi sia delle originarie imbarcazioni olandesi sia di quelle inglesi.
Si tratta di una pratica, in uso soprattutto in passato, di deformazione di termini per adattarli alla propria lingua che crea una inevitabile confusione nell’ampio mondo delle imbarcazioni tradizionali.

In alcuni racconti di autori nordici viene descritto lo spettacolo delle vele color rosso ocra delle imbarcazioni che si allontanavano dalla riva in gran numero. Il particolare colore era dovuto alla pratica di impermeabilizzare le vele di cotone, dopo qualche anno di uso, con miscele di oli e cere tenute assieme dall’ocra rossa, un prodotto naturale a base di argilla.
La combinazione di ocra e olio aumentava il peso della tela, in ogni caso inferiore al peso di una vela non trattata bagnata dalla pioggia, ma le rendeva più durevoli ed elastiche.

Nomenclatura degli alberi di un veliero

Nei velieri a tre alberi si distinguono l’albero di trinchetto, quello prodiero; maestro il centrale e mezzana il poppiero. Un ulteriore albero quasi orizzontale è il bompresso, all’estrema prua.

Quando un tipo di veliero è dotato di un secondo albero di mezzana rispetto alla sua tipica configurazione, tale albero è detto palo. Così un brigantino (un veliero a due alberi) quando è dotato di un terzo albero a poppa è detto brigantino a palo. Un veliero a tre alberi a vele quadre, indicato nella terminologia marinara italiana con il termine nave (in ingl. full-rigged ship), quando è fornito di un quarto albero viene denominato nave a palo. Il nome di palo dato all’ulteriore albero è detto jiggermast nella terminologia anglosassone.

Per i velieri a due alberi si adotta la seguente convenzione: trinchetto è l’albero prodiero e maestro quello posto più a poppa. Quando l’albero di prora è situato più verso il centro dello scafo prende il nome di albero maestro per cui quello più a poppa è l’albero di mezzana.

Cutter

Nel ‘600 gli inglesi riconobbero le qualità della randa aurica con cui erano attrezzate le imbarcazioni degli olandesi e fiamminghi, quale evoluzione della vela a tarchia la cui comparsa nel Nord Europa sarebbe avvenuta agli inizi del ‘400.
Da tale incontro sarebbero nate quelle unità del naviglio minore che avrebbero resi celebri gli inglesi nei secoli successivi. Tra tutti i tipi senza dubbio il primo posto lo detiene il cutter, sia perché si è dimostrato di spiccate qualità marine come barca da lavoro sia perché le sue forme e la sua attrezzatura hanno rappresentato un riferimento per lungo tempo per molte barche da regata.

Il cutter (pron. cutter) classico, quello delle origini, che ha una attestazione documentale intorno alla prima metà del ‘700, è caratterizzato da un solo albero, composto di un tronco maggiore ed uno di gabbia con crocette, armato di randa aurica e controranda e da un lungo, quasi orizzontale, bompresso retrattile su cui venivano murati diversi tipi di fiocco come si può notare nel disegno ripreso da un manuale in uso nei corsi formativi della Royal Navy della prima metà dell’800.

Lo scafo con ampia superficie laterale dell’opera viva e dalle forme stellate a “calice”, alto di bordo libero, slancio di prua corto o inesistente, poppa a specchio sporgente oltre il dritto o dallo slancio assente, dimostrava un’ottima stabilità di forma e una capacità di tenere il mare attestata da un numero ridotto di cutter persi in mare nel corso degli anni.

É opinione comune considerare il termine come derivato dal verbo to cut “tagliare”, quasi a voler evidenziare la capacità di fendere in velocità le onde, un termine che esprime egregiamente le sue qualità di unità da corsa.
Per le sue particolari qualità marine di velocità, evoluzione e risalita al vento, trovò impiego in attività di controllo, sorveglianza e assistenza alla navigazione. Con tale compito ebbe diffusione anche in Francia e Stati Uniti.
Tipico esempio furono i pilot cutter, richiesti dalle assicurazioni per assistere i clipper lungo il Canale della Manica o per guidare le navi lungo la costa orientale degli Stati Uniti, e i revenue cutter, (revenue, “tassa, entrata”), per contrastare il contrabbando.
Solo tale tipo di imbarcazione poteva svolgere l’attività di pilotaggio nel Canale di Bristol le cui coste si estendono per circa 100 miglia prima di confluire nella foce del fiume Seven, una forma a imbuto che favorisce un mare decisamente corto e confuso anche per la presenza di forti correnti di marea dovute a notevoli escursioni, le più ampie al mondo con valori fino a 14 m. I pilot cutter erano in grado di affrontare tutto ciò con notevole maneggevolezza anche in acque ristrette.

Nell’area mediterranea, i maggiori costi di costruzione dei cutter, rispetto ad analoghe unità a vela latina, un’attrezzatura molto più presente, limitarono la sua diffusione che si concentrò nella parte più occidentale del Mediterraneo. In particolare nel Tirreno, dalla seconda metà dell’800, la diffusione del cutter fu soprattutto in Toscana e successivamente in Campania. In effetti si trattava di imbarcazioni da lavoro con attrezzatura a cutter in cui lo scafo aveva perso le originarie caratteristiche: poppa a cuneo o tonda, chiglia orizzontale, albero più verso prora che può ricordare l’originario sloop, assenza di boma. Inoltre furono costruiti alcuni esemplari con un secondo albero, più simile a un ketch.

Attualmente il termine individua imbarcazioni con un solo albero dislocato appena a proravia del centro attrezzato con randa Marconi e due stralli a cui si inferiscono due fiocchi, la trinchetta più bassa e lo yankee, il cui strallo fa dormiente in testa d’albero, contrastato da un paterazzo ovvero ad una frazione, in genere di 7/8, dell’altezza dell’albero dalla coperta, che impone l’uso di due sartie volanti alte, contemporaneamente a quelle basse della trinchetta.

Clipper

I Clipper hanno rappresentato l’ultimo capitolo dell’evoluzione della marineria velica, prima del sopravvento del vapore nella propulsione navale.
Ad oggi non è nota l’etimologia del termine mentre la sua origine la si fa discendere dai clipper di Baltimora (in verità inizialmente tali imbarcazioni avevano altra denominazione: il termine clipper comparirebbe intorno al 1830), piccole e sottili unità impiegate fin dalla fine del ‘700 per il commercio lungo le coste degli Stati Uniti e delle isole dei Caraibi che per la particolare forma di carena a V erano molto instabili.

L’inevitabile sviluppo di tale tipo di veliero diede origine, intorno agli anni Trenta dell’800, a quel tipo di unità navale mercantile conosciuto appunto come Clipper, velieri relativamente piccoli, in cui si privilegiava la velocità piuttosto che la capacità di carico, con forme fini, estremità stellate, in genere attrezzate a goletta o a brigantino, a volte a nave, ridotto bordo libero, forte pescaggio, poppa leggera, sezione maestra più a poppavia e una superficie velica decisamente superiore ad altre unità simili che richiedeva equipaggi più numerosi. Uno dei primi veri clipper fu Ann McKim, varato nel 1833 a Baltimora.

La leggerezza dei carichi trasportati, oppio, spezie e té, se da una parte non esigeva grandi capacità di carico, dall’altra imponeva forti zavorre per garantire buone qualità nautiche anche a forti velocità, tipicamente di 9 nodi, quasi il doppio di altri velieri. A tal proposito, dal 1843 al 1855 gli americani costruirono alcuni clipper con una ridottissima capacità di carico al solo scopo di raggiungere velocità considerate all’epoca eccezionali, definendo così una nuova classe, la extreme clipper, in grado di superare i 10 nodi (il clipper Rainbow era in grado di navigare a 14 nodi).
La velocità richiesta ai clipper non solo era necessaria per ridurre i tempi di trasporto, ma anche per potersi meglio sottrarre a contrabbandieri e pirati, particolarmente interessati ai ricchissimi carichi di oppio. Il Falcon rappresenta uno dei più famosi opium clipper, come erano indicati tali velieri.

I principali costruttori furono americani e inglesi impegnati sulle rotte commerciali tra il Regno Unito e la Cina, nel commercio transatlantico e sulla rotta da New York a San Francisco doppiando Capo Horn durante la corsa all’oro in California. Anche altre nazioni si dotarono di clipper, seppure in minore quantità, come gli olandesi a partire dal 1850, impegnati nel commercio del tè e come servizio passeggeri per Java.

Il 1843 fu l’anno di inizio del massimo sviluppo dei clipper che durerà fino al 1869 quando si verificarono alcuni eventi legati all’inevitabile progresso tecnologico: l’apertura del Canale di Suez che favorì le navi a vapore, all’epoca dotate di minore autonomia; il completamento della ferrovia First Transcontinental Railroad che rese più agevole e relativamente meno pericoloso il viaggio da costa a costa degli Stati Uniti; l’aumento dell’efficienza delle navi a vapore già iniziato tre anni prima con la SS Agamennon dopo che il Board Trade inglese ebbe concesso un aumento della pressione del vapore.

Nell’ultima fase dell’evoluzione delle navi a vela, quando già dalla metà dell’800 si stava diffondendo la costruzione in ferro, alcuni clipper furono costruiti posando il fasciame in legno su una struttura in ferro in grado di coniugare i vantaggi dei due materiali: il fasciame poteva essere rivestito con fogli di rame per una carena più pulita, anche nei lunghi viaggi nei mari caldi, vantaggiosa in termini di velocità, una opportunità impossibile su fasciami in ferro a causa della corrosione bimetallica; il telaio in ferro migliorava la resistenza complessiva e consentiva più volume interno rispetto alle strutture in legno.

Tale metodo di costruzione fu detto composito, un termine con cui oggi si indicano quelle soluzioni costruttive caratterizzate da materiali di varia natura da cui si ottengono altri materiali con più alte prestazioni. Il più famoso clipper composito è stato il Cutty Sark, ancora oggi visibile, ma non navigante, a Greenwich in Inghilterra.

L’ultimo clipper passeggeri in composito completamente attrezzato fu il Torrens, varato nel 1875, mentre i clipper con scafo completamente in ferro continuarono ad essere costruiti per il commercio di lana dall’Australia fino alla fine degli negli anni 90 dell’800.

Come riferisce lo scrittore Arthur H. Qlark nell’opera The Clipper Ship Era (pag. 347), agli inizi del ‘900 rimase in servizio attivo solo il Titania, costruito in Inghilterra, all’epoca di proprietà di Maresca di Castellammare, impegnato nelle rotte dall’Europa al Sud America.

Su wikipedia si trova una lista dei clipper che hanno solcato i mari, dal 1844 al 1891 oltre tre clipper definiti moderni, attualmente attivi, emulazione di quelli tradizionali.

Vela al terzo

Appartenente alla famiglia delle vele da taglio, è una vela a quattro lati inferita ad un’antenna, la pennola (yard in ingl.), un’asta sporgente verso prua di un terzo della sua lunghezza. Se tale sporgenza è di un quarto o anche meno la vela è detta al quarto. In realtà la vela al quarto comprende più varianti che non hanno una definizione precisa nella terminologia italiana, a differenza di quella inglese per la quale il termine generico è lug sail, che compare agli inizi del ‘600, in cui lug probabilmente deriva dall’antico scozzese lugge, con cui si indicava il manico di una brocca o di una tazza, da cui l’attuale generico vocabolo aletta, aggetto.

Le lug sail comprendono:
standing lug – fornita o meno di boma, ha il punto di mura (l’angolo inferiore di prua ) assicurato al piede dell’albero mentre l’antennale è inferito alla pennola articolata all’albero da una trozza in cavo. Se il boma è presente esso è collegato all’albero da una forcella. Tale tipo di attrezzatura è caratteristico del dinghy 12′
balance lug – simile alla precedente, ma con la pennola e il boma sporgenti appena verso prora rispetto all’albero. Può considerarsi una vela al quarto.
gunter lug – anch’essa simile alla standing lug, ma con la pennola particolarmente verticale. Il boma è fornito di trozza per il collegamento all’albero. In italiano è considerata una vela non appartenente ai gruppi di vela al quarto ed è nominata come vela gunter o alla portoghese.
dipping lug – priva di boma, con il punto di mura assicurato ad una manovra, detta ostino, costituita da un penzolo, eventualmente dotato di paranco, che fa dormiente più a prua dell’albero, spesso all’estrema prua, tramite un gancio. Si tratta di un’attrezzatura velica semplice, la più antica, derivata dalla vela quadra, generalmente priva di manovre fisse e dotata di una pennola, posta sempre sul lato di sottovento all’albero, messa a segno con una drizza, mentre l’estremità inferiore poppiera della vela (punto di scotta) è manovrata da una scotta. Ad ogni cambiamento di mura la vela va ammainata (dipped, abbassata), l’ostino sganciato, si porta quindi il picco sottovento all’albero, si riaggancia l’ostino, con la drizza si ala la pennola e quindi con la scotta si porta la base della vela più al centro barca per risalire il vento con una buona efficienza.

La vela al terzo, nella sua definizione più generale, fu tipica del naviglio minore da pesca e da trasporto del medio e alto Adriatico del XIX sec., come il topo e la sampierota e che sopravvive oggi ad opera di appassionati riuniti in associazioni come l’Associazione Vela al Terzo (AVT), costituita nel 1986, il cui compito istituzionale è rivolto al recupero e valorizzazione degli scafi e delle tecniche di voga e di manovra a vela della tradizione nautica della laguna veneta (Termini di una vela al terzo)

Le vele al terzo e al quarto furono anche le attrezzature di molte imbarcazioni del Mare del Nord. In particolare dei lugger (da lug sail), imbarcazioni da lavoro delle coste di Francia, Inghilterra, Irlanda e Scozia tra il XVIII e la metà del XIX sec. a due e anche a tre alberi, di varia grandezza, anche pontate.

Anthony Roll – registro della Royal Navy del XVI secolo

Gli studiosi di cose navali e non solo, basano le loro ricerche storiche su un’accurata selezione e interpretazione di fonti materiali, testuali e iconografiche già presenti o portate alla luce dai ritrovamenti archeologici.
Tra le fonti iconografiche più note per la comprensione dell’evoluzione delle navi in periodi antecedenti al XVII sec. quando non si era ancora sviluppato un uso sistematico di disegni in scala ad uso dei cantieri navali, vi è il cosiddetto “Anthony Roll”. Prima del ‘600 i disegni venivano eventualmente ad integrare le liste di materiali necessari alle costruzioni, un’esigenza richiesta dalle amministrazioni degli Stati per il controllo di quanto si produceva.
Ed è in tal senso che l’ Anthony Roll fu concepito dal suo autore, un certo Anthony Anthony.

Realizzato a partire dal 1543 in forma di tre rotoli (in ingl. roll è rotolo) di pergamena quale registro cartaceo delle navi della marina inglese al tempo dei Tudor, contiene la raffigurazione di 58 navi da guerra insieme a informazioni su dimensioni, equipaggio, armamento ed equipaggiamento di base. I rotoli furono presentati al re Enrico VIII nel 1546 e quindi conservati nella biblioteca reale. Nel 1680 il re Carlo II diede due dei rotoli a Samuel Pepys (1633-1703), politico inglese, famoso per i suoi diari, che li fece tagliare e rilegare in un unico volume, ora nella Biblioteca Pepys a Cambridge. Il terzo rotolo rimase nella collezione reale finché non fu donato dal re Guglielmo IV a sua figlia Lady Mary Fox, che lo vendette al British Museum nel 1858 ed ora è di proprietà della British Library.

Mentre le liste sulle dotazioni, peraltro molto dettagliate, sono risultate esatte, non altrettanto può dirsi per le illustrazioni che evidenziano la scarsa conoscenza tecnica dell’autore, soprattutto sull’attrezzatura e nel ricorso alla ripetizione in serie di alcuni dettagli. Tuttavia hanno fornito un contributo alla conoscenza della storia navale e sono state una preziosa fonte per gli studi dell’araldica di tale periodo storico. Tra le navi riprodotte anche le famose caracche Henry Grace à Dieu e Mary Rose, quest’ultima l’unica riproduzione ad oggi esistente, risultata utile nello studio del relitto fatto emergere dal fondo del mare l’11 ottobre del 1982.

Cocca

Derivata da un’imbarcazione medievale delle coste del Mar Baltico, non pontata, a remi e con timone laterale, impiegata per brevi distanze, nota come kogge in olandese e cog in inglese, dallo scafo a fondo piatto nella mezzeria, vantaggioso per la navigazione anche interna, a fasciame portante a tavole sovrapposte (clinker), tipico delle imbarcazioni nordiche come i drakkar, le caratteristiche imbarcazioni dei vichinghi e come queste con le estremità alte, idonee ad affrontare le onde del mare.

A partire dal XII sec. le cocche, come erano chiamate nella lingua italiana, aumentarono di dimensioni e lo scafo venne parzialmente pontato anche con l’aggiunta di un castello a poppa (cocca incastellata) e talvolta anche a prua, sporgenti dallo scafo, una esigenza dovuta alla duplice funzione di trasporto e di difesa contro i pirati, una piaga costante su tutti i mari. Prua e poppa erano dritte, ma inclinate, il fasciame continuò ad essere a tavole sovrapposte e la propulsione, governata da un timone centrale, era garantita da una grande vela quadra armata su un unico albero centrale, sul quale poteva essere presente una coffa dove prendevano posto vedette ed arcieri. Fu l’imbarcazione (cocca anseatica) maggiormente in uso nei primi tempi della Lega Anseatica (1150-1450), l’alleanza di città del Nord Europa che nel Medioevo tenne il monopolio dei commerci in gran parte del mare del Nord e del mar Baltico. Raggiunsero lunghezze di 25 m con un dislocamento variabile tra le 40 e le 200 tonnellate, raramente 300.

I vantaggi del cog furono presto apprezzati dai Genovesi, tanto che agli inizi del ‘300 le loro galee a tre alberi con timoni laterali furono sostituite da una nuova unità navale, chiamata anch’essa cocca (inizialmente detta dai genovesi navis), che differiva dalle cocche del nord per una struttura scheletrata dello scafo, tipica dell’area mediterranea.

Con il XIV secolo, la cocca nordica aveva raggiunto i suoi limiti strutturali e fu lentamente sostituita da un altro tipo di galleggiante simile, l’hulk, che grazie ad una struttura dello scafo più robusta si sviluppò in dimensioni maggiori permettendo anche di essere dotato di due o tre alberi. Scarse sono le notizie su tale tipo di galleggiante, ma probabilmente rappresenta, insieme al nau o nao dei portoghesi e genovesi, l’anello di passaggio a un successivo veliero, la caracca.

Pochi sono i relitti di cocche (cogs) rinvenuti, tra cui la cosiddetta cocca di Brema o meglio Bremer Kogge del 1380 trovata nel 1962 a Brema nel corso dei lavori di dragaggio nel fiume Wesser ed oggi esposta al Museo Marittimo Tedesco di Bremerhaven.
Un relitto di hulk di 25-30 m del XV sec., conosciuto con il codice U34, si è invece trovato nella regione del Flatvarp in Svezia a sud di Stoccolma nel 1970.

Costruzione di ancore nel ‘700

Costruzione di ancore nel ‘700

I disegni riportati sono tratti dal volume delle tavole sulla Marina dell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers (Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri ), meglio nota come Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, i due principali artefici di tale opera nata dagli ideali dell’Illuminismo.

L’Enciclopedia, pur non rappresentando la prima raccolta ordinata di cultura generale è stata senz’altro il primo lavoro collettivo non affidato a un solo studioso ma un’iniziativa, indipendente da tutti i poteri, originata dalla collaborazione dei migliori ingegni del tempo. Nelle tavole riportate qui è illustrata un’officina per la costruzione di ancore.

Fregata

Fregata

Il termine “fregata” (in spagnolo e portoghese: fragata; olandese: fregat; francese: frégate; inglese: frigate) nacque nel Mediterraneo alla fine del XV secolo, a indicare una modesta nave da guerra tipo galea con remi e vela, costruita per la velocità e la manovrabilità. L’etimologia della parola rimane incerta, probabilmente discende dal latino aphractus, una piccola galea non pontata, a sua volta derivata dall’aggettivo greco ἄφρακτος (aphraktos), non difeso per cui aphraktos naus era una nave aperta, indifesa.

Successivamente, durante la guerra degli ottant’anni (1568-1648), nota anche come rivolta dei Paesi Bassi, contro il dominio spagnolo, a Dunkerque, porto nord orientale della Francia, al confine con il Belgio, base dei corsari favorevoli alla corona spagnola, furono costruite unità a vela di media grandezza, generalmente a due ponti (che conferiva una tipica sagoma lunga e bassa) attrezzate a nave, veloci e maneggevoli, ma con una relativamente bassa potenza di fuoco, con cui i corsari al soldo della Spagna assalivano i mercantili francesi, olandesi e inglesi. A tali navi da guerra fu assegnato il nome di fregata.

Con la Guerra dei Sette anni (1756–63), il primo conflitto mondiale della Storia, il termine fu assunto definitivamente a indicare navi da guerra con armo a nave, inferiori come potenza di fuoco, ma più veloci delle “navi di linea” a tre ponti, i vascelli. Le bocche da fuoco erano poste in un’unica fila sottostante la coperta ed altre in corrispondenza delle sovrastrutture di prua e di poppa. Impiegate come esploratori e di scorta ai convogli mercantili.

Con l’avvento della propulsione a vapore nel sec. 19° le fregate furono dotate, oltre che della velatura tradizionale, del nuovo sistema di propulsione. Fu coniato così il termine pirofregata (in ingl. steam frigate).

Esempi famosi sono:
fregata francese Hermione, varata nel 1779, nota per aver trasportato il generale francese Lafayette negli Stati Uniti nel 1780 in qualità di emissario dell’alleanza franco-americana nella rivoluzione contro l’Inghilterra;
fregata Fama, della Marina Veneta, varata nel 1784 dall’Arsenale di Venezia;
fregata USS Constitution, varata nel 1794, la più vecchia nave al mondo ancora galleggiante;
pirofregata Borbone, costruita a Castellammare di Stabia e varata nel 1860, della Real Marina delle Due Sicilie, passata ai Garibaldini nel settembre 1860, assumendo il nuovo nome di Garibaldi.

Una tipologia di velieri: la Nave

Una tipologia di velieri: la Nave

Nella marineria velica dire che un veliero era armato a nave voleva dire che era dotato di tre alberi a vele quadre, tipico armamento dei più grandi velieri. A tale attrezzatura velica di base vi erano poi le varianti come riportate nello schema, a cui si potevano aggiungere navi a 5 alberi, come il tedesco Preussen , costruito nel 1902.

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