Battello Berthon e le barche pieghevoli

Da poco prima della metà dell’800 furono ideate alcune unità galleggianti per far fronte a particolari esigenze nei trasporti, dovute al peso o a limitati spazi disponibili, che si stavano creando o si pensava potessero determinarsi nell’ambito delle esplorazioni nei vari angoli della Terra o per dotare di barche di salvataggio quelle unità militari con ridotti spazi interni. Un primo esempio è l’invenzione, piuttosto estrosa, di Peter Alexander Halkett (1820–1885), un ufficiale della Royal Navy, consistente in una barca gonfiabile in tessuto che, in virtù della sua portatilità sarebbe stata utile nelle esplorazini geografiche. L’invenzione (1844) non andò oltre la realizzazione di alcuni prototipi con annesse fasi sperimentali anche in spedizioni artiche, ma a tutti gli effetti essa anticipò di quasi un secolo il gommone, quell’unità nautica, come zattere o piccole barche, costituita da elementi gonfiabili in tessuto gommato (da cui il termine italiano), provvisti di valvole necessarie al loro gonfiaggio e sgonfiaggio (in maniera simile al modello di Halkett) per poter essere riposto in appositi contenitori.
Il gommone, divenuto un prodotto valido intorno ai primi anni ’30 del ‘900 (il primo esemplare fu una zattera) è noto in inglese come rubber boat, rubber dinghy, inflatable boat (barca gonfiabile), mentre in francese è canot pneumatique, dove canot, termine derivato dallo spagnolo canoa, è genericamente una piccola imbarcazione a remi, di qualunque materiale, che in italiano diviene canotto, un termine oggi assegnato ai piccoli gommoni e che in passato, nell’espressione canotto automobile, indicava i piccoli motoscafi.

Nel 1874 è la volta di una barca realizzata in più sezioni (sectional boat) che venne impiegata in Africa Centrale dall’esploratore e giornalista inglese Sir Henry Morton Stanley (1841-1904). La discesa dei fiumi Laluaba prima e Congo dopo, avvenne impiegando alcune canoe e diverse unità lady Alice, questo il nome della tipologia di barca, che permise di superare quelle parti in cui la navigazione diveniva impraticabile, smontando le barche che venivano trasportate a spalla e poi rimontate nella parte successiva della via navigabile.

La riduzione dello spazio occupato era ottenuta invece con le barche pieghevoli (folding boat in inglese), di cui un primo esempio fu il battello Berthon, in tela impermeabile e ossature in legno, inventato intorno alla metà dell’800 dal reverendo inglese Edward Lyon Berthon (1813-1899), ma entrata in produzione negli anni Novanta di quel secolo, impiegata come scialuppa di salvataggio per unità militari con spazi interni molto contenuti come sottomarini, torpediniere e cacciatorpediniere. La barca divenne famosa per il suo impiego durante l’eccezionale inondazione della Senna del 1910 che colpì per diverse settimane molti distretti della capitale e diverse città che si affacciano sul fiume. Il livello fu talmente imponente che le imbarcazioni non potevano passare sotto i ponti. Dal nord della Francia giunse un contingente di marinai equipaggiato di numerosi battelli Berthon tanto da essere ritratti in numerose fotografie dell’epoca.

Anche il Titanic era dotato di barche pieghevoli, precisamente 4 unità, già testate ed approvate dal British Board of Trade (Ministero del Commercio), un modello ideato dal capitano di marina danese V. Engelhardt da cui prese il nome. Le 4 barche Engelhardt, caratterizzate da un fondo galleggiante a cui si collegavano tutti gli elementi della struttura superiore, integrarono le 16 scialuppe ordinarie, il numero minimo previsto dalle norme del Board of Trade in vigore all’epoca. Nel complesso le 20 scialuppe potevano trasportare solo il 53% circa di quelli effettivamente a bordo quella notte.
Le dotazioni di sicurezza erano regolamentate in funzione della stazza lorda della nave e non del numero dei passeggeri, con una soglia di 10.000 tsl oltre la quale la dotazione minima era di 16 scialuppe. Tale regola apparteneva ad una norma risalente al 1894 quando la maggior parte delle navi era di stazza inferiore a tale soglia, mentre nel 1912 la stazza delle navi passeggeri era cresciuta di molto. Il Titanic, ad esempio, aveva una stazza lorda di poco più le 46.000 tonnellate e una capacità totale di oltre 3.300 presenze a bordo.
A differenza dei battelli Berthon, effettivamente pieghevoli, con apertura e chiusura a compasso, le scialuppe Engelhardt, una volte smontate, si presentavano come la chiusura di un mantice. Non a caso il termine inglese che le identificava era collapsible lifeboat (letteralmente scialuppe che si afflosciano).

Durante la II Guerra Mondiale le barche pieghevoli furono largamente usate, proprio per la loro faciltà di essere caricate su un automezzo, per l’attraversamento di corsi d’acqua o per il sostegno di ponti galleggianti. A tal proposito il genio militare inglese, alla fine degli anni ’20 del ‘900 ideò un sistema di attrezzature, sviluppato poi negli anni successivi, costituito, oltre dalle barche pieghevoli, anche da cavalletti, ancore, sovrastrutture, denominato Folding Boat Equipment (FBE), con cui si potevano realizzare rapidamente ponti galleggianti idonei all’attraversamento di molte tipologie di corpi d’acqua per mezzi e uomini.

Come si sa il gommone è divenuto l’unità stivabile e trasportabile per antonomasia, ma le barche pieghevoli vengono ancora prodotte da cantieri specializzati in diversi modelli quali canoe, kayak, barchette tipo optimist. Nel maggio del 2004 una spedizione di scalatori inglesi della RAF, al comando dell’ingegnere Ian Edward Atkins (1958-2018) oltre a raggiungere la vetta dell’Everest (con il n. 1412), stabilì anche un primato tutto particolare, quello di aver navigato con una barca a 6000 metri di quota. Gli scalatori scelsero di portarsi una leggerissima barca pieghevole, escludendo un gommone per evitare di gonfiarlo ad alta quota con il rischio di esplosione e il pericolo di forature. Esclusero anche scafi in alluminio o in fibra per la loro pesantezza. Quando giunsero a 6000 metri il lago era appena ghiacciato in superficie così riuscirono a rompere il sottile strato e a mettere la barca in acqua con cui si spostarono per pochi metri, quel tanto che bastò per entrare nella storia dei primati.

Lady Alice

Si tratta di una barca formata da più sezioni (sectional boat) che venne impiegata dall’esploratore e giornalista inglese Sir Henry Morton Stanley (1841-1904) nella spedizione del 1874 in Africa centrale, qualche anno dopo aver rintracciato il grande esploratore scozzese David Livingstone (1813 – 1873), dato per disperso per cinque anni. Il successo del ritrovamento e la risonanza del libro How I found Livingstone diedero l’opportunità a Stanley di organizzare una seconda esplorazione nella millenaria ricerca delle sorgenti del Nilo.

Circa 20 anni prima, con la scoperta del lago Vittoria da parte di un altro esploratore britannico John Hanning Speke (1827 – 1864), si pensava di aver definitivamente individuata la sorgente del Nilo, ma vi erano ancora molte incertezze anche perché il lago non era stato completamente esplorato.
Livingston, con cui Stanley aveva avuto occasione, nei mesi successivi al suo ritrovamento, di esplorare la parte settentrionale del lago Tanganica escludendolo dalla pertinenza al bacino del Nilo, un’altra ipotesi che circolava allora, riteneva che fosse il fiume Lualaba la sorgente primaria del lago Vittoria.

Quando seppe della morte di Livingston, Stanley decise di pianificare una nuova spedizione in Africa allo scopo di fare chiarezza sulle varie ipotesi e soprattutto di identificare geograficamente il grande fiume Laluaba. Ricevuto un cospicuo finanziamento da due grandi testate giornalistiche dell’epoca, nel novembre 1874 sbarca a Bagamoyo sulla costa della Tanzania affacciata sull’Oceano Indiano.
Nel corso dei due anni successivi effettuò la circumnavigazione e il rilievo cartografico sia del lago Vittoria sia del lago Tanganica. Raggiunse poi la stazione araba di Nyangwe sulla sponda del fiume Lualaba da cui prese il via nel novembre del 1876 la nuova fase dell’esplorazione. La discesa del fiume avvenne impiegando alcune canoe e diverse unità lady Alice che permisero di superare quelle parti in cui la navigazione diveniva impraticabile, smontando le barche che venivano trasportate e poi rimontate nella parte successiva della via navigabile.
Dopo circa 300 miglia dalla partenza si accorsero che il fiume piegava bruscamente verso ovest per immettersi nel fiume Congo (noto per la prima volta agli europei alla fine del XV secolo), escludendo così completamente l’ipotesi di Livingston. In ogni caso la spedizione proseguì, sempre con le lady Alice, lungo il corso del fiume Congo fino all’avamposto portoghese di Boma a circa 60 miglia dalla foce sull’Oceano Atlantico nell’agosto 1877. Dopo 999 giorni portarono a termine la spedizione solo la metà delle persone partite (Stanley fu l’unico europeo sopravvisuto), un bilancio che portò l’esploratore inglese a coniare per l’Africa l’espressione The Dark Continent (il continente nero).


Per quanto riguarda la scoperta della sorgente del Nilo esistono più versioni di cui la più nota risale al 1937, questo perché la vastità dell’area degli affluenti, la presenza di terreni di ogni tipo (zone paludose, montagne e foreste) rendono difficile se non poco sensato individuare una vera e propria sorgente del secondo fiume più lungo al mondo.
Sulla vita successiva di Stanley vi sono informazion contrastanti sulle quali non siamo in grado di esprimerci. Si vuole qui sottolineare quanto Stanley disse all’indomani dell’impresa, attribuendo il risultato ai suoi principali portatori locali: “il successo è stato possibile grazie al coraggio e all’abilità intrinseca di 20 uomini … se non ci fossero stati quei 20 il viaggio sarebbe durato solo pochi giorni”.

In un’impresa successiva Stanley utilizzò un nuovo tipo di barca sezionabile con scafo in acciaio, la Advance.

Troll A, piattaforma per estrazione gas

La piattaforma, il cui nome è quello della tipica figura mitologica scandinava, è situata dal 1996 al largo della costa occidentale della Norvegia (dove oggi si trovano anche le unità Troll-B e Troll-C), adibita ad estrazione di gas naturale. Nota per essere una delle strutture più alte e pesanti che sia mai stata trasferita dal luogo di costruzione ad un’altra posizione sulla superficie della Terra è anche uno dei progetti di ingegneria più grandi e complessi della storia.

La piattaforma, che rientra tra quelle fisse del tipo a gravità per l’efficacia del suo peso di rimanere in posizione (1,2 milioni di tonnellate con 516000 di zavorra), ha un’altezza complessiva di 472 metri di cui 303 sotto la superficie del mare.
La struttura è fondamentalmente costituita da quattro gambe in cemento armato costruite con la tecnica dello Slip form, in italiano cassero scorrevole, in cui la forma (tecnicamente il cassero) si sposta lentamente con la gettata di calcestruzzo che, per i forti spessori delle gambe, di oltre 1 metro per resistere alle enormi sollecitazioni ambientali ed operative, avvenne alla velocità di 4 minuti per ogni centimetro.
L’ancoraggio è garantito da un sistema detto a sottovuoto (vacuum anchor), valido su fondi melmosi, ottenuto con grossi cilindri collegati alle gambe che sfruttano la differenza di pressione tra l’esterno e l’interno in maniera simile concettualmente a un bicchiere pieno d’acqua che viene capovolto in una bacinella anch’essa contenente acqua.

Una delle gambe contiene i montanti di trasporto del gas e un ascensore per permettere al personale tecnico di giungere fino al fondo (esiste anche un percorso a piedi di 2000 gradini). L’ascensore impiega oltre nove minuti per compiere l’intera corsa.
Nel 2006, in occasione del decimo anniversario della piattaforma, al fondo di tale gamba l’artista britannica Katie Melua tenne un concerto che così entrò nel Guinness dei primati come il concerto sottomarino più profondo.
Esiste un documentario sull’evento, interessante anche per la preparazione alla sicurezza delle persone impegnate nel concerto (circa 40 tra musicisti e tecnici).

Note: Le principali tipologie di piattaforme offshore di estrazione sono:
fixed, poggiate o infisse su una fondazione subacquea non oltre i 400 m di fondale. Si tratta del tipo di piattaforma più diffusa
tension-leg, piattaforme galleggianti, adatte per profondità tra 900 e 1500 m, tenute ferme da tiranti di acciaio assicurati a fondazioni sottomarine. I tiranti garantiscono una buona resistenza al moto ondoso e permettono alla piattaforma di muoversi lateralmente ma non verticalmente
spar, termine, traducibile in boa a palo, assegnato a piattaforme, adatte per elevati fondali, costituite da uno o più cilindri verticali galleggianti di grande diametro, ancorati permanentemente al fondo del mare a mezzo di cavi e catene. Il cilindro ospita la zavorra nella parte inferiore, il petrolio estratto e l’aria, nella parte superiore, necessaria al galleggiamento.

Querina

Il 25 aprile 1431 la Querina, una cocca veneziana di Pietro Querini (1400? – 1448) membro della famiglia patrizia veneziana dei Querini, impegnata anche nell’attività mercantile via mare, salpò da Candia nell’isola di Creta, dove producevano uno dei vini più famosi e rinomati, la malvasia. Così, come era accaduto altre volte, con a bordo un carico costituito da malvasia, ma anche spezie, cotone, allume di rocca ed altro ancora proveniente dall’Oriente, la Querina prese il largo diretta alla volta delle Fiandre, sotto il comando dello stesso Querini con 68 uomini di equipaggio.

Dopo 7 mesi e mezzo circa, durante i quali furono sottoposti a numerose avversità per venti contrari, rottura del timone e infine per una forte tempesta, gli uomini dovettero abbandonare la nave su due scialuppe, in balia del vento e del mare. Solo 16 sopravvissero toccando terra ben distanti da dove fecero naufragio. Si trovarono così superstiti su un’isola dell’arcipelago delle Lofoten in Norvegia dove rimasero 3 mesi per poi rientrare a Venezia.

Poichè esistono in internet numerosi articoli sul naufragio, tra cui segnaliamo quello del Dizionario biografico della Treccani, abbiamo inserito solo una carta del percorso compiuto della cocca Querina.

Segnaliamo altresì che nel 2019 sono stati pubblicati due volumi di raccolta degli scritti di Pietro Querini e dei due suoi compagni di navigazione, Cristofalo Fioravante e Nicolò de Michiele:
– «Infeliçe e sventuratta coca Querina». I racconti originali del naufragio dei Veneziani nei mari del Nord a cura di Angela Pluda (Viella)
– «Il naufragio della Querina. Veneziani nel circolo polare artico» a cura di Paolo Nelli (Nutrimenti)

Consigliamo inoltre l’articolo del 2019 di Andrea Caracausi ed Elena Svalduz Quando a naufragare erano i veneziani. Infelice e sventuratta coca Querina riportato nella interessante testata giornalistica Il Bo Live dell’Università di Padova.

Si conclude l’articolo con alcune note sul termine cocca assegnato alla Querina. Le dimensioni dell’unità fanno supporre che le sue caratteristiche erano più prossime a quelle di una caracca (che già in quegli anni andava a sostituire la cocca) anche se i veneziani già da molto prima avevano adattato le cocche nordiche, del resto come i genovesi, aggiungendo uno o più alberi a vela latina che indicavano come navis, un termine di origine genovese e più raramente coche.

Götheborg galeone svedese

Götheborg, con i suoi 58 m di lunghezza compreso bompresso, è ad oggi la più grande nave a vela in legno attiva al mondo, replica dell’omonimo veliero appartenuto alla Compagnia Svedese delle Indie Orientali (SOIC Svenska Ostindiska Companiet) , una compagnia commerciale fondata nel 1731, con sede a Göteborg alla foce del fiume Göta älv sulla costa meridionale occidentale della Svezia, nella regione nota come Gotaland da cui partirono i Goti per l’Europa centro-meridionale nel III sec.

Il galeone originario (Götheborg I) venne costruito a Stoccolma e dopo il varo nel 1738 fu trasferito a Göteborg da dove l’anno successivo salpò per l’Oriente con un carico di ferro, legno e catrame, un equipaggio di 144 elementi e, pur essendo una unità commerciale, un armamento di 30 cannoni per difesa e segnalazione.
Come per altre 36 navi impiegate dalla SOIC nel corso dei suoi quasi 80anni di esistenza, passato il Capo di Buona Speranza e attraversato l’ Oceano Indiano terminò il viaggio di andata a Canton, allora il porto di arrivo di tutte le navi provenienti dall’Europa, da dove, imbarcate casse di tè, porcellana, tessuti di seta, fece ritorno a Göteborg.

Il 12 settembre 1745, di ritorno dal suo terzo viaggio in Cina, a meno di un miglio da Göteborg fece collisione con un banco di rocce sommerse a circa 4 m affondando. Non vi furono vittime e un terzo del carico di ingente valore, fu recuperato. La singolarità dell’accaduto non comprensibile con marinai esperti (la nave ritornava dopo due anni di traversate movimentate attraverso gli oceani) hanno sollevato non pochi dubbi negli studiosi, come si può leggere nell’ articolo di wikipedia in inglese sul Götheborg .

Alla fine del 1984 quello che rimaneva del naufragio fu individuato da alcuni archeologi subacquei svedesi dando inizio a una campagna di recupero che durò fino al 1992 a cui si affiancò l’idea di costruire una replica della vecchia nave. Dopo enormi sforzi tecnici, instancabili entusiasmi soprattutto finanziari, centinaia di migliaia di ore nel cantiere Terra Nova di Göteborg, impiegando ben 1000 grosse querce, piantando 55.000 chiodi di ferro forgiato a mano, 1900 mq di vele di lino cucite a mano e 25 tonnellate di corde anch’esse commesse a mano, oltre a fornire la nave di tutti quei prodotti tecnologici, dai motori di propulsione, alle attrezzature più moderne di navigazione, alle scialuppe di salvataggio, necessarie a garantire gli odierni requisiti di sicurezza, il Götheborg III (questo il vero nome in quanto la SOIC fece costruire nel 1786 un altro galeone più grande con lo stesso nome), venne finalmente varato nel 2003, dopo circa 8 anni di lavoro e nel 2005 fu pronto per la sua prima navigazione.
Le numerose persone coinvolte furono sapientemente coordinate dal maestro d’ascia, nonché sommozzatore, Joakim Severinson al quale vanno i nostri complimenti.

Per altre informazioni si rimanda al sito the swedish ship Götheborg dell’associazione che gestisce questo galeone.

Zoroastro, prima petroliera a motore – 1878

Nel 1878, una nave insolita passò dal Baltico al Mar Caspio attraverso una complessa e lunga via di acque interne costituita della rete di canali d’acqua Mariinsky (ora nota come canali Volga-Baltico), dai laghi Ladoga e Onega e dallo stesso fiume Volga. L’unità, denominata Zoroastro (in russo: Зороастр), in onore del filosofo iraniano Zarathustra, le cui tesi erano molto popolari tra gli europei dell’epoca, era una nave cisterna con motrice a vapore, costruita in Svezia per conto della compagnia petrolifera Branobel dei fratelli Nobel.

Si trattava della prima unità per il trasporto di prodotti pentroliferi dotata di propulsione propria. Prima di allora il trasporto avveniva con chiatte rimorchiate per le acque interne e sul mare con navi a vela. I prodotti erano messi in barili in metallo o più spesso in legno. Un passo successivo fu quello di impiegare serbatoi metallici adattati alle stive della nave che però imponevano fasi di montaggio e smontaggio.

Il Zoroastro, che pertanto può considerarsi la prima petroliera (oil tanker in ingl.) dotata di una propria autonoma propulsione, era una nave necessariamente piccola per poter navigare in acque interne, transitando per le numerose chiuse dei canali, lunga 56 m, larga 8, e con 2,7 m di pescaggio, per una capacità totale di carico di circa 245 t. Lo scafo in acciaio era composto di otto cisterne in acciaio collegate da tubi, poste a proravia e a poppavia della sala macchine, situata a mezza nave. Un sistema di 21 compartimenti verticali garantiva lo stagno e la stabilità.

Dopo Zoroastro, la Branobel ordinò altre due navi più grandi, Buddha e Nordenskiöld, che per le loro dimensioni furono impiegate sul Mar Caspio, tra Astrakhan e Baku più a sud. Anch’esse costruite in Svezia, furono realizzate in tre sezioni per essere trasportate su pontoni fino ad Astrakhan dove vennero assemblate.

Successivamente e per molto tempo Zoroastro fu impiegata nel trasporto di cherosene da Baku a Tsaritsyn (ora Volgograd) e Astrakhan per poi terminare il servizio nel 1949 quando, insieme ad altre sei navi dismesse, fu riempita di cemento e allagata per permettere la costruzione della prima isola artificiale della storia, la Oil Rocks, per fini estrattivi.

Zattera Carley

Invenzione americana dell’inizio ‘900, la zattera o galleggiante Carley, dal nome dell’inventore Horace Carley (1838-1918), fu impiegata come unità di salvataggio durante le due Guerre Mondiali. Costituita da tronchi cilindrici dritti e conici in rame del diametro tra i 30 e i 50 cm uniti tra loro a mezzo di graffatura e successiva saldatura, che formavano una camera d’aria anulare che garantiva una galleggiabilità per circa 2/3 di quella totale richiesta; il resto era assicurato da uno spesso rivestimento in sughero, circondante l’anello, fornito di una camicia in tela resa impermeabile tramite pittura. Ciascun tronco era dotato di diaframma sia per accrescerne la resistenza al momento della caduta in acqua dalla nave, alle sollecitazioni date dalle legature della rete costituente il paiolo che dei festoni per la presa del naufrago in acqua, sia per dividere in compartimenti stagni la parte anulare. Le dotazioni, costituite da pagaie, acqua, razioni e attrezzature di sopravvivenza, erano fissate alla rete del pavimento.

A differenza delle ordinarie scialuppe la zattera poteva essere calata in mare senza l’uso di una gru e a differenza delle zattere gonfiabili in gomma dell’epoca, era relativamente immune al danneggiamento delle camere galleggianti.
Di contro gli occupanti erano esposti alle intemperie tanto da far registrare numerosi episodi di marinai che si erano messi in salvo sulla zattera, ma non erano sopravvissuti alle condizioni metereologiche a cui erano stati sottoposti.

La cronaca comunque riporta un episodio di sopravvivenza estrema di un marinaio cinese che dopo l’affondamento del mercantile inglese SS Benlomond su cui era imbarcato, ad opera di un sommergibile tedesco a 750 miglia ad est del Rio delle Amazzoni riuscì, insieme ad un altro marinaio a mettersi in salvo su una Carley. Ciò accadeva il23 novembre 1942 alle 14,10. Il 5 aprile 1943 fu avvistato e tratto in salvo al largo delle coste del Brasile, dopo 133 giorni quando le sue forze erano al minimo, mentre il compagno non era riuscito a sopravvivere.

Boadicea, tradizionale imbarcazione a vela

Il Boadicea, una tipica imbarcazione da pesca inglese, conosciuta come smack, venne varata nel 1808, tre anni dopo la morte di Nelson a Trafalgar, raggiungendo così oggi il primato di essere la più antica imbarcazione europea a vela ancora navigante.

L’imbarcazione, il cui nome era quello di una regina di una popolazione dell’Inghilterra orientale del I sec., con scafo lungo 9 m e un dislocamento di 11 tonnellate, fu attiva per oltre 100 anni nella raccolta delle ostriche lungo le coste orientali della Gran Bretagna per poi, dal 1938, divenire imbarcazione da diporto. Nel 2008, in occasione dei suoi duecento anni di età fu esposta al salone nautico di Londra.

HMS Inflexible la prima nave con illuminazione elettrica

HMS Inflexible fu una corazzata della Royal Navy costruita nel 1870 per operare nell’area del Mediterraneo, dotata di macchine a vapore insieme ad un armamento velico con 1.700 m² di velatura.

Varata nel 1876, per entrare in servizio nel 1881, era lunga 105 metri per 23 di larghezza, tecnologicamente all’avanguardia per poter competere con le corazzate della Regia Marina italiana tra cui il Caio Duilio e l’Enrico Dandolo.

Non avendo interessi per tali generi di navi ci soffermiamo su un suo primato importante, quello di essere stata la prima nave dotata di impianto di illuminazione elettrica.

L’illuminazione, che copriva la sala macchina, la zona delle caldaie ed alcune altre parti della nave, era ottenuta tramite gruppi ciascuno di 18 lampade ad arco di Swan disposte in serie. Ogni lampadina a era dotata di un meccanismo automatico di inserimento di una resistenza in parallelo in grado di garantire la continuità elettrica in caso di guasto. I gruppi inizialmente erano alimentati da una rete di distribuzione elettrica a 800 V in continua,ma dopo un incidente mortale di folgorazione la Royal Navy, nel 1882, adottò una distribuzione a 80 V in continua che divenne uno standard sulle navi della Marina inglese.

Fox e la prima traversata atlantica a remi del 1896

Il 2 agosto 1896 una piccola imbarcazione a remi con due uomini a bordo entra nel porto di Le Havre in Francia. Sembra una delle tante barche della costa, che in una bella giornata estiva, ritorna dalla pesca. I due uomini dopo aver dato volta a una bitta sul molo scendono a terra. Non sappiamo cosa fecero appena sbarcati, ma sappiamo dai giornali dell’epoca che i due avevano attraversato l’Atlantico.

L’impresa era stata pensata dall’irlandese Richard K. Fox, proprietario della rivista americana The National Police Gazette, una rivista molto chiacchierata di sport e di gossip con particolare attenzione alle bellezze femminili dell’epoca. I due marinai erano pescatori norvegesi, naturalizzati americani Frank Samuelson di 26 anni e George Harbo di 32 e il Fox una barca in fasciame clinker di 18 piedi di lunghezza per 5 di larghezza ed appena 51 cm di bordo libero, costruita, sotto la supervisione di Harbo, per 289 dollari (circa 9000 dollari al 2020) in un cantiere del New Jersey, dove i due vivevano.

Fonti accreditate riportano che l’editore sostenne una parte dei costi dell’impresa, oltre a farne pubblicità sulle pagine della rivista. Non a caso la barca portava il suo nome.

La dotazione di bordo consisteva di 5 paia di remi, ben 240 scalmi, bussola, sestante e almanacco, un’ancora galleggiante, un salvagente, 24 fuochi, acqua in diversi contenitori per circa 300 lt, 2 lattine di cherosene da 22 lt ciascuna, un fornellino, una padella, posate, olio, coperte, gallette, carne in scatola, uova.

Samuelson e Harbo, sotto lo sguardo di una folla di accorsi, salparono il 6 giugno da The Battery Park sul fiume Hudson nel quartiere di Brooklyn a New York e, dopo aver seguito la scia dello yacht a vapore di un socio del Police Gazette, presero il largo sparendo all’orizzonte. Giungeranno 55 giorni dopo all’isola di Scilly, a sud ovest della Cornovaglia in Inghilterra, e da lì altri due giorni per giungere a Le Havre, la meta finale.

Durante il viaggio affrontarono vento, pioggia, l’affaticamento muscolare provocato da una voga incessante, il pericolo degli squali e i morsi della sete e della fame quando il 10 luglio un’onda fece capovolgere la barca, che riuscirono a raddrizzare per la presenza di un corrimano voluto da Harbo sull’opera viva, perdendo buona parte dei viveri. Fortuna volle che pochi giorni dopo furono avvistati dalla nave norvegese Cito che li rifornì di nuovo cibo permettendo così di riprendere la voga verso l’Europa.

Come è accaduto per altre straordinarie imprese, successivamente circolarono notizie risultate non vere, allo scopo di avvolgere di leggenda un’impresa che comunque fu straordinaria. Tra queste quella che riportava di un premio di 10000 dollari (equivalenti a 310.000 dollari al 2020) o quella in cui si raccontava che il piroscafo, che riportava in America Frank, George e Fox, in prossimità della costa americana, per vento a sfavore, si trovò a corto di combustibile. Il capitano ordinò che venisse dato tutto quanto era combustibile per alimentare la caldaia. I due, rifiutandosi di consegnare la loro barca, chiesero di essere calati fuoribordo. Così remarono per 200 miglia giungendo a Sandy Hooke, nel New Jersey dove informarono le autorità della necessità di assistenza alla nave.

Non si sa qual’è stata la fine dell’originale, ma nel 1974 il Smithsonian Institution, un istituto di istruzione e ricerca con annesso grande museo, incaricò il 91enne Harold Seaman, figlio dell’originario costruttore, di realizzare una replica del Fox, varata l’anno successivo, oggi in mostra presso uno yacht club del New Jersey.

Un nuovo tentativo di attraversamento dell’Atlantico avvenne nel 1966, settant’anni dopo, quando due britannici, Chay Blyth e John Ridgway, salparono da Terranova per arrivare in Irlanda 92 giorni più tardi, dopo aver superato onde di 15 metri, uragani e squali durante il lungo percorso. Successivamente altri equipaggi si sono cimentati in tale sorta di sport estremo, ma solo nel 2010, dopo 114 anni, 4 vogatori su Artemis Investments hanno battuto il record dei due norvegesi attraversando l’Oceano Atlantico, da New York all’isola di Scilly in 43 giorni, 21 ore e 26 minuti. Ma il record per due persone che vogano attraverso l’Atlantico appartiene ancora a Harbo e Samuelson.

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