Portolani

Dopo il lungo periodo dei peripli, con il loro contenuto narrativo dominante sulle informazioni nautiche, fatta eccezione per lo Stadiasmo o Periplo del Mare Grande, datato intorno alla metà del I sec. d.C., in cui il termine stadiasmo ha il significato letterale di “misura per stadi” che sostituisce le antecedenti valutazioni delle distanze in giornate, l’intensificarsi degli scambi economici tra le aree opposte del Mediterraneo, gli spostamenti su mare sotto la spinta delle Crociate e l’affermarsi di alcune città mediterranee come potenze navali, tra cui Genova e Venezia, diede un impulso alla produzione di una nuova documentazione nautica, il portolano o portulano, un nuovo termine coniato nel Medioevo come portolanus, “relativo al porto”, derivato dal latino portus, porto. Elementi distintivi rispetto ai peripli erano una maggiore presenza di informazioni sulle distanze, espresse in stadi o in miglia e sulle direzioni, conseguenza del perfezionamento della bussola magnetica, ma anche descrizioni delle coste ed altre notizie utili al navigante. Non a caso in origine il termine portolano era sinonimo di pilota, colui che guida la nave nell’entrata dei porti.

Il più antico portolano finora conosciuto è il Compasso da Navigare, scoperto e studiato dallo storico dell’antichità classica e geografo Bacchisio Motzo (1883-1970) che pubblicò i risultati del suo lavoro nel 1947 (il testo è stato riproposto nel 2012 dalla linguista Alessandra Debanne con un nuovo e più ricco corredo informativo tra cui un ampio glossario).
Di autore ignoto, probabilmente realizzato in Toscana, fu scritto in volgare (non sempre di facile interpretazione per il linguaggio stringato e gergale) e pubblicato in più edizioni, la prima delle quali si fa risalire al 1250.
Partendo da Gibilterra e procedendo in senso orario come nei peripli, vengono descritte le coste del Mediterraneo con indicazione dei porti e punti notevoli. Sono riportate sia le distanze, espresse in miglia (corrispondente a un valore valutato dagli studiosi compreso tra 1230 e 1280 metri).
Sul Compasso, come d’altra parte su tutta la produzione documentale nautica del Medioevo, vi sono ancora molte aree oscure che originano opinioni diverse da parte degli studiosi come ad esempio l’effettivo uso a bordo di documenti come le carte e i portolani.

Per dare un’idea del contenuto di un portolano riportiamo una delle tante istruzioni nautiche del Compasso:
Da lo dicto Taolato a lo capo de Solso xx millara per lo maestro ver lo ponente pauco.
Et guardate a lo ‘ntrare dentro d’una sacca plana que à entorno x palmi, et è dentro entorno ij millara per la via sopredicta, all’altra ponta appresso Taolato, denamti dericto a questa segonna ponta entorno j millaro en mare.
[Dal detto capo Teulada a capo Sulcis 20 miglia in direzione maestrale, un pò verso ponente (all’incirca 320°). Attenzione a non entrare in una secca piana che arriva a pescare fino a 10 palmi e si estende fino a circa due miglia nella direzione detta, dalla seconda punta dopo Teulada fino a circa un miglio davanti a questa punta].

Tra il XV e il XVI secolo furono prodotti numerosi portolani:
nel 1490 ne fu pubblicato uno a Venezia attribuito al mercante e navigatore veneziano Alvise Da Mosto (1429-1483). Noto come Portolano del mare o portolano Rizo, dal nome dell’editore Bernardino Rizo di Novarra, rappresenta uno dei primi esempi di documenti nautici a larga diffusione e con progressivi miglioramenti.
Con la fine del Medioevo i portolani (in fr. portulan, ingl. portolan) furono impiegati, con diverso nome, da altre nazioni europee, primi i francesi con Le Grant Routtier et pilotage de la mer di Pierre Garcie (1430?-1502), considerato il primo idrografo francese, pubblicato la prima volta nel 1483 quindi integrato e aggiornato fino al 1643. In Francia il portolano è così chiamato routtier, un termine da cui discende l’inglese rutter e il portoghese roteiro.
Intorno al 1584 l’olandese Luca Jans Loon Waghenaer pubblicò una raccolta di documenti nautici, noti come Waggoners, comprendenti nozioni di navigazione, tavole, carte, istruzioni di navigazione sui mari d’Europa. Il grande successo spinse l’editore a pubblicarlo in varie lingue: l’edizione inglese aveva come titolo The Mariners Mirror, un’espressione che vorrebbe restituire al lettore, come fa uno specchio. lo spazio rappresentato. L’edizione uscì pochi mesi dopo la battaglia navale che vide gli inglesi sconfiggere la Invincible Armada, una impresa resa possibile anche per l’impiego intensivo dei Waggoners.
Un’altra produzione di documenti nautici in tale periodo storico furono gli isolari, descrizioni accompagnate da disegni di isole ed arcipelaghi del Mediterraneo, tra cui il Liber Insularium Arcipelagy (1420) del religioso fiorentino Cristoforo Buondelmonti (1385?-1430?).
L’elenco dei portolani è numeroso. Concludiamo citando il portolano del Mediterraneo Kitab-i Bahriye (Libro della marina) dell’ammiraglio turco Piri Reis (1465?-1553?) redatto intorno al 1520.

Carte, mappe ed altre definizioni

Carta, nel significato di rappresentazione sul piano, in forma ridotta e secondo opportuni simboli, della superficie della Terra o di una sua parte. Ha origini con il XIV secolo: l’italiano Petrus Vesconte (?- forse 1327), considerato il primo ad aver apposto firma e data su un’opera cartografica, utilizzava sia il termine carta sia tabula; un’ordinanza catalana del 1354 e un documento ufficiale portoghese del 1443 riportano l’espressione carta de marear.
Derivato dalla parola latina charta (foglio di papiro, scritto), si ritrova nelle principali lingue europee: : il francese carte, il tedesco karte, l’inglese chart, il norvegese kort.

Mappa, un termine latino (un pezzo di stoffa, un tovagliolo, un drappo) assegnato dagli agronomi medievali alle loro rappresentazioni grafiche dei terreni che probabilmente venivano eseguite su tela, da cui il termine.
Nella lingua italiana è pertanto la rappresentazione grafica di una zona di terreno, una carta geografica o topografica, una pianta la cui scala non supera certi rapporti.
Da tale termine seguirono parole composte come mappa mundī (da mundus, mondo), l’ antico francese mapamonde, il nostro attuale mappamondo, una rappresentazione cartografica in scala ridotta dell’intera superficie terrestre, talvolta riportata su una sfera, a partire dal IV sec., una realizzazione, soprattutto fuori dall’Italia, indicata più correttamente come globo, dal lat. globus o come planisfero, anche questo termine improprio.
Nella lingua inglese i due termini chart e map vengono assegnati a due distinte rappresentazioni della superficie terrestre. Il primo termine, che è anche grafico, tabella, è una rappresentazione di dati idrografici quali fondali, pericoli, ostacoli, ecc. utili al navigante; il secondo termine, map, è un contenitore di informazioni topografiche secondo criteri che ne specializzano l’impiego, dalle mappe stradali, agli atlanti, dalla rappresentazione della volta celeste alle distribuzioni geospaziali di informazioni su specifici temi (mappe tematiche), come quelli economici, sociali, sanitari, ecc.
Anche nella lingua spagnola la carta nautica è detta carta náutica mentre mapa è la carta geografica.
Nella lingua italiana il termine carta ha un significato molto ampio, dalle carte geografiche, tematiche, ai semplici fogli su cui scrivere, stampare, al materiale che in altre lingue deriva dal greco pápyros: in fr. papier, in ingl. paper, in sp. papel, da cui fogli di carta come l’ingl. sheet of paper.

Planisfero, dal latino planus, piatto, livellato e sphaera, in origine era la parola indicativa di una rappresentazione su superficie piana di una porzione della sfera celeste (tanto da essere qualche volta il nome dell’astrolabio). Successivamente il termine venne assegnato anche alle raffigurazioni cartografiche dell’intera su­perficie terrestre su una superficie piana secondo un tipo di proiezione.

Cartografia, termine relativamente recente, in uso tra i geografi francesi e tedeschi a partire dai primi anni dell’800.
Dal francese cartographie, composto dal latino medievale carta e dal francese graphie a sua volta dal greco graphia, scrittura, disegno, descrizione

Cosmografia, dal tardo latino (II-V sec.) cosmographĭa, a sua volta dal greco cosmos, universo, con il ‘500 assume il significato di descrizione del cielo con i relativi fenomeni, successivamente divenne sinonimo di geografia, intesa come rappresentazione scritta e disegnata di quanto era narrato in forma scritta e orale da viaggiatori, mercanti, monaci, piloti di navi. Attualmente il termine è ancora usato come descrizione di tutta la Terra in contrapposizione alla geografia che si occupa delle singole regioni.

Corografia, termine definito da Tolomeo come rappresentazione visiva di località come porti e villaggi. Nel Rinascimento venne impiegato per le mappe di piccole aree nazionali.

Nell’antica Grecia la parola pinax (da cui l’ital. pinaco nelle parole composte come pinacoteca) era il termine generico di tavola o quadretto dalla superficie piatta, come quelle cosparse di cera su cui si poteva scrivere. Tale termine era anche in uso ad indicare le carte geografiche a volte aggiungendo l’aggettivo geographikos (pinax). E’ proprio da tale originario significato che già con il Medioevo era in uso il termine tabula (spesso con l’aggiunta di Geographica) per le opere cartografiche.

Peripli

Nei continui viaggi per mare Fenici e Greci raccoglievano tutte quelle notizie di carattere tecnico utili per poter ripercorrere quelle rotte, soprattutto in prossimità delle coste. Si trattava, in origine, di istruzioni nautiche comprendenti distanze tra gli approdi, caratteristiche visive dei punti cospicui, indicazioni su scogli e bassifondi ed altro ancora, un’esperienza che veniva trasferita a intere comunità marinare che le trasmettevano di generazione in generazione oralmente.

A partire dalla metà del VI sec. a.C. si ha traccia di resoconti di tali viaggi spesso non redatti dagli stessi navigatori, ma da storici, poeti e geografi che, eliminata buona parte delle originarie notizie nautiche hanno aggiunto informazioni storiche, mitologiche ed etnografiche trasformando quelle narrazioni in opere letterarie, note come Peripli, dal greco períplous, circumnavigazione, rivolte a un pubblico colto, non certamente interessato da aspetti tecnici utili a una cerchia ristretta di esperti.

Già dal IV o V sec.d.C. i Peripli vengono classificati in Peripli parziali, che riguardano una parte del Mediterraneo (noto come mare Interno), i Peripli del mare Interno ed ultimi i Peripli del mare Esterno, l’Oceano, il “mare” che nell’ecumene avvolge le terre.
La narrazione nei Peripli procede in forma più o meno schematica e regolare di un viaggio per mare con l’indicazione delle distanze tra gli approdi espresse inizialmente in giorni e notti di navigazione.

Il documento più antico pervenutoci è il periplo di Annone il Navigatore, esploratore cartaginese famoso per aver navigato nel VI o V secolo a.C. lungo la costa dell’Africa, dall’odierno Marocco fino al Senegal.

Un altro itinerario degno di nota è quello attribuito a Scilace di Carianda (in Caria, un tempo regione dell’Anatolia difronte Rodi), un navigatore greco vissuto tra il VI e il V secolo a.C., di cui non si dispone la versione originaria, ma una di qualche secolo dopo, aggiornata e rielaborata tanto che gli studiosi lo definiscono come Periplo dello Pseudo-Scilace, una navigazione che inizia da Gibilterra, si sposta lungo la sponda settentrionale del Mediterraneo, gira il Mar Nero in senso orario e ritorna al punto di partenza attraverso l’Asia Minore (Turchia), il Levante, la costa dell’Egitto e del Nord Africa. In ogni caso Scilace è a noi noto anche perché Erodoto lo ricorda nelle sue Storie per aver condotto, su incarico del re di Persia Dario I, una spedizione che durò trenta mesi, dall’Indo fino alle coste settentrionali del Mar Rosso. Di tale spedizione non esiste alcun documento.

Un caso a parte è l’opera andata perduta di Pitea di Massilia, del IV sec. a. C., probabilmente dal titolo Sull’Oceano di cui restano pochi frammenti raccolti da autori successivi (Eratostene, Ipparco, Strabone) che riferiscono del viaggio del navigatore greco nel mar del Nord e attorno alla Gran Bretagna.

Un successivo periplo è quellodel Ponto Eusino (antico nome del Mar Nero), scritto dallo storico e politico greco Arriano di Nicomedia (antica città dell’Anatolia sul mar di Marmara) nel 130-131 a.C., che contiene una descrizione delle rotte commerciali lungo le coste del mar Nero.

Il Periplo più recente è Ora Maritima del poeta latino Rufio Festo Avieno (IV sec. d.C.) rifacimento di un antico periplo greco, databile al VI sec. a. C., integrato sulla base di fonti posteriori.

Il periplo del Mar Eritreo (Mar Rosso) è un testo, probabilmente compilato intorno alla metà del I secolo, descrittivo delle rotte di navigazione sul Mar Rosso e, in parte, l’Oceano Indiano e il Golfo Persico. Abbiamo conoscenza del documento attraverso un manoscritto bizantino del X secolo in quanto l’originale in greco andò perduto.

Particolarmente interessante è Lo Stadiasmus Maris Magni, un periplo greco di autore ignoto, nel quale sono descritti i porti e le rotte di navigazione del mare Mediterraneo (Grande Mare). Si tratta di un racconto di viaggio in cui le distanze sono espresse in unità lineari (gli stadi, da cui il nome), ma anche contenente notizie pratiche, forme espressive ed informazioni destinate ai naviganti, anticipando così i portolani medievali.

Giroscopio meccanico

l primo esempio di giroscopio si deve al tedesco J.G. Federico Bohnenberger (1765-1831), professore di matematica, astronomia e fisica all’Università di Tubinga il quale lo realizzò nel 1815 per un uso didattico (in particolare per la spiegazione del fenomeno di precessione della Terra), chiamandolo semplicemente “Machine”. Acquisito dall’École Polytechnique di Parigi, su intervento del matematico Siméon-Denis Poisson (1781-1840), entrò in numerose scuole francesi per interesse dell’altro matematico francese Pierre-Simon Laplace (1749-1827).
Fu proprio la diffusione della “macchina di Bohnenberger” che sollecitò l’interesse di Léon Foucault (1819-1868) il quale nel 1852, dopo averne limitato il funzionamento a due gradi di libertà, ebbe modo di comprenderne l’uso anche come dimostratore della rotazione terrestre, così da coniare il nuovo termine giroscopio (dal greco giro-rotazione e scopos-a cui si guarda), termine poi rimasto anche quando il meccanismo è stato utilizzato per altre applicazioni.

Il giroscopio è fondamentalmente costituito da un corpo solido di rivoluzione di notevole inerzia (somma dei prodotti di ciascuna massa elementare per la corrispondente distanza dall’asse) capace di ruotare ad elevata velocità angolare intorno al proprio asse, convenzionalmente denominato X, noto anche come asse di spin.
Il rotore è montato su un sistema cardanico che permette anche le rotazioni intorno agli assi y e z.
Il giroscopio deve essere bilanciato, cioè il suo baricentro deve trovarsi all’intersezione dei tre assi della sospensione cardanica.
Il giroscopio così descritto, pemettendo le rotazioni secondo tre assi, è detto a 3 gradi di libertà. Se si blocca lo snodo cardanico intorno ad uno dei due assi Y o Z, al giroscopio rimangono 2 gradi di libertà.

Imprimendo velocità angolare al rotore, questo presenterà un fenomeno noto come inerzia o rigidità giroscopica che si manifesta nel mantenere inalterata la posizione dell’asse di spin in una data direzione.
Se inizialmente l’asse punta verso una stella, nel tempo tenderà ad indicare sempre la medesima stella. Tale proprietà è tanto più manifesta quanto maggiore è l’inerzia del rotore e più alta è la velocità di rotazione.
Occorre precisare che una direzione fissa sulla Terra non è affatto fissa nello spazio, perché la Terra ruota una volta sul proprio asse ogni 24 ore e compie una rivoluzione completa attorno al sole ogni anno. Il sole stesso si muove nello spazio portando con sé la Terra e gli altri pianeti. A causa di questi movimenti, l’ espressione “direzione fissa nello spazio” è quindi teorica. In ogni caso, da un punto di vista pratico è possibile dire che una linea condotta dalla Terra a una stella lontana (quella contenente l’asse di spin) è una direzione fissa nello spazio. Se l’asse di rotazione di un giroscopio rotante è puntato verso una stella lontana, rimarrà puntato verso la stella mentre la Terra gira.

Ogni volta che si tenta di allontanare l’asse di spin dalla sua posizione iniziale, ad esempio applicando una forza F verticale (ved. disegno), a cui corrisponde un momento M, che darebbe luogo, se il rotore fosse fermo, ad una rotazione intorno ad un asse normale al piano di F (nell’esempio intorno all’asse YY), si sperimenta invece un secondo fenomeno detto precessione del giroscopio in cui l’asse di spin si sposta nel piano perpendicolare a quello contenente la forza perturbante. L’asse di spin cerca di raggiungere il vettore M (percorrendo l’angolo minore), ma quest’ultimo nel frattempo cambia direzione . Così l’asse di spin nell’inseguire il momento perurbante viene a descrive lentamente un cerchio come si può osservare chiaramente nel moto della trottola.

Foucault ebbe l’occasione di notare che il giroscopio con due gradi di libertà presentava proprietà applicabili in navigazione. Ad esempio notò che impedendo la rotazione intorno a Z, l’asse di spin, una volta disposto nel piano meridiano, si disponeva parallelo all’asse terrestre ndicando la latitudine del luogo.

Note sui vettori: Velocità angolare e momento di una forza sono grandezze fisiche vettoriali, cioè grandezze dotate sia di un valore sia di una direzione e verso, come le velocità, gli spostamenti, le forze. Per la velocità angolare e il momento di una forza, si assume per convenzione come positivo il senso di rotazione antiorario. In tal caso il vettore velocità angolare o il vettore momento sarà orientato perpendicolarmente al piano di giacitura della coppia di forze o dell’elemento rotante e il verso sarà diretto verso l’osservatore . Una semplice regola pratica che permette di stabilire direzione e verso di una velocità angolare o di un momento di forze è la regola della mano destra: se si dispongono le dita secondo il senso di rotazione della coppia o dell’elemento rotante, il pollice indica la direzione e il verso del momento o della velocità angolare.

Strumenti a riflessione: il sestante

Dalla presentazione presso la Royal Society dell’ottante di Hadley nel 1731, si dovrà attendere il 1750 perché lo strumento si diffondesse prima nella marina inglese e successivamente nelle altre marine. Inizialmente l’ottante, non sempre dotato di cannocchiale, era di grandi dimensioni (raggio di circa 50 cm) per limitare gli errori della scala, struttura in legno duro, specchi in metallo, alidada in rame e lembo in avorio.

Nello stesso anno (1730) in cui Hadley inventava il suo ottante, anche l’americano Thomas Godfrey (1704-1749) inventò uno strumento simile e ritenendo la sua invenzione originale ne trasmise una dettagliata descrizione alla Royal Society. In verità si scoprì poi, nel 1742, che la paternità dell’invenzione era stata di Newton.

L’ottante in pochi anni subì numerose modifiche, dalla disposizione verticale per un più facile uso, fino alla forma tipica del sestante in cui l’ampiezza dell’arco graduato fu portata da 45° a 60°, come aveva suggerito nel 1757 il vice ammiraglio inglese John Campbell (1720-1790), marinaio e uomo di scienza. Successivamente l’arco del lembo fu portato a 80°

Con la realizzazione delle prime macchine a dividere e gli ulteriori progressi tecnologici iniziati a partire dagli ultimi anni del ‘700 (per un approfondimento ved. l’articolo sull’evoluzione degli strumenti nautici) il sestante raggiunse nel corso di quello scorcio di fine secolo e degli inizi dell’800 già un alto grado di perfezione.
I principali protagonisti del progresso di un così importante strumento per la navigazione astronomica furono gli inglesi e i tedeschi, tra cui l’ottico inglese Jesse Ramdsen (1735-1800), il tedesco Georg von Reichenbach (1772-1826), l’inglese Edward Troughton (1753-1835)

Nota: quando il traguardo è l’orizzonte l’altezza α = 0 e i raggi incidenti e riflessi dagli specchi formano un angolo β rispetto alla normale agli specchi stessi. Poichè lo specchio piccolo è fisso i due raggi incidente e riflesso non cambiano di posizione (altrimenti il target non sarebbe osservabile). Quando il traguardo ha un angolo α > 0 lo specchio grande deve ruotare e quindi ruota la sua normale. L’angolo γ formato tra le due normali allo specchio grande (corrispondenti alle due posizioni) ha lo stesso valore dell’angolo percorso dall’alidada. Con semplici passaggi si ricava che l’angolo percorso dall’alidada è la metà dell’altezza α, quindi una escursione di 60° dell’alidada corrisponde a 120° di apertura.

Magnetometro e bussola fluxgate

Il russo Victor Vacquier (1907 -2009), all’età di 13 anni con la famiglia fuggì dalla guerra civile russa su una slitta trainata da cavalli con cui, attraversato il Golfo di Finlandia, interamente ghiacciato, giunse a Helsinki. Tre anni dopo si spostarono in Francia. Vacquier quindi si trasferì negli Stati Uniti dove conseguì una laurea in ingegneria elettrica e due anni dopo, nel 1929, un master in fisica.
Nel 1930, il team di ricerca della Gulf di cui Vacquier era responsabile, ideò e realizzò il primo magnetometro fluxgate che venne impiegato durante la Seconda Guerra Mondiale per rilevare i grandi oggetti in metalli ferrosi, come i sottomarini, che determinano variazioni localizzate nel campo magnetico terrestre.

Un magnetometro fluxgate è un dispositivo in grado di misurare direzione e forza di un campo magnetico (appartiene così alla famiglia dei magnetometri vettoriali), in particolare quello terrestre ed è costituito da un piccolo nucleo di materiale ferromagnetico su cui sono avvolte due bobine, una primaria di eccitazione ed una secondaria di rilevamento. La prima viene alimentata da una corrente in grado di saturare ciclicamente il nucleo, cioè di magnetizzarlo, smagnetizzarlo, invertire la magnetizzazione, smagnetizzarlo e così via. Tale evoluzione continua del campo magnetico induce una corrente elettrica nella bobina secondaria che viene misurata da un rilevatore. Se tutto ciò avviene in assenza di un campo magnetico esterno le correnti di ingresso e di uscita sono in fase. Nel momento che il dispositivo si trova immerso in un campo magnetico si registra uno sfasamento tra le due correnti il cui valore è dipendente dall’intensità del campo magnetico di fondo. Naturalmente il dispositivo si completa con circuiti di elaborazione della corrente di uscita adatti a fornire il valore del campo magnetico, mentre l’asse della barretta fornisce la direzione del campo rilevato.

Dopo la guerra Vacquier entrò alla Sperry sviluppando girobussole e con la fine degli anni ’50 diresse un programma che utilizzava i suoi magnetometri fluxgate (quali dispositivi surplus del periodo bellico) per mappare le variazioni magnetiche del fondo dell’oceano dando inizio a una mappatura delle variazioni magnetiche che già dalla fine del ‘700 i marinai delle aree del nord Atlantico avevano riconosciuto nelle letture alla bussola.

Il più noto, ma non l’unico, impiego dei magnetometri fluxgate è quello delle bussole il cui primo esemplare fu realizzato nel 1943 dalla Eclipse-Pioneer, una divisione della statunitense Bendix Aviation.

Il principale vantaggio delle bussole fluxgate rispetto a quelle tradizionali è dovuto alla tipologia di uscita delle misure, di tipo elettronico digitale, che possono essere remotate ed interfacciate con altra strumentazione di navigazione.
Inoltre l’integrazione, avvenuta in tempi relativamente più recenti, con l’asservimento da microprocessore ha permesso la produzione di bussole autocompensate che pertanto non necessitano sia di magneti compensatori sia delle procedure tabellari dei valori residui delle deviazioni.
Rimane solo l’esecuzione di un giro di bussola.

Il campo magnetico terrestre ha in superficie una componente orizzontale ed una verticale (la componente orizzontale cresce dal polo all’equatore, viceversa la componente verticale), quest’ultima non utile ai fini della navigazione ma che può influire sulla misura se il sensore si sposta dalla sua posizione orizzontale come può accadere per rollio, beccheggio o sussulto. Nei sistemi più complessi si ricorre a piani inerziali giroscopici su cui sono posti i magnetometri mentre in altri si ricorre allo smorzamento delle oscillazioni, in genere ottenuto con algoritmi che rilevano i movimenti dello scafo attraverso opportuni sensori.

Fari – storia degli apparati ottici

L’aumento di visibilità di un faro si ottiene concentrando la maggior parte dei raggi luminosi emessi dalla sorgente luminosa in un cono di pochi gradi con vertice nel centro della sorgente e l’asse diretto verso l’orizzonte.
In origine si adottò il metodo di riflessione della luce, dall’impiego di una superficie piana, come un muro imbiancato a calce retrostante la fonte luminosa, ad apparati ottici veri e propri, noti come catottrici (dal greco katotrikós – speculare), quali specchi argentati dal profilo piano, sferico, parabolico o una loro combinazione.

Molto probabilmente il primo esempio di riflettore potrebbe essere stato quello del faro di Alessandria se sono vere le informazioni tramandateci da storici arabi che, avendo visitato quello che ancora era in piedi della torre, fanno riferimento all’esistenza di superfici metalliche riflettenti. Una documentazione certa dell’uso dei primi riflettori piani in metallo lucido che rimandano in avanti una parte della luce, risale alla prima metà del ‘500. Nel corso dei successivi due secoli molti fari furono dotati di riflettori metallici anche se non si hanno notizie sulla loro forma e configurazione.
Un particolare riflettore degno di essere ricordato è quello fatto costruire dall’ingegnere francese de Bitry installato al faro di Cordouan in Francia nel 1727 costituito da una piramide rovesciata con facce rivestite di metallo lucido capaci di riflettere la luce del fuoco del carbone del faro. Tale idea, pur originale, non ebbe vita lunga a causa della fuliggine che costringeva a continue operazioni di pulizia.

Verso la fine del ‘700 comparvero i primi riflettori sferici in metallo lucido (in precedenza venivano realizzati dei gusci rivestiti di moltissimi specchietti) tra cui il réverbère di Pierre Tourtille Sangrain (1771), un noto imprenditore francese che aveva vinto nel 1769 l’appalto per l’illuminazione della città di Parigi.

I riverberi furono utilizzati prima nel faro francese di Saint-Mathieu in Bretagna nel 1773 e successivamente in quello di Corduan, la cui lanterna venne equipaggiata con 80 lampade a riflettore da 20 cm disposte su cinque archi sostenuti da un’asta centrale. Ogni lampada possedeva uno stoppino piatto immerso in un piccolo serbatoio situato sul retro del riflettore che poteva contenere olio di colza, di oliva o il più pregiato olio di balena. Una leva consentiva di alzare e abbassare le lampade per facilitarne la manutenzione. Con tale nuovo sistema illuminante la lanterna venne accesa per la prima volta il 12 novembre 1782. Purtroppo, dopo un iniziale spettacolare effetto luminoso, l’efficienza del sistema calò rapidamente tanto che alla fine di quell’anno i marinai già si lamentavano della sua scarsa visibilità, facendo presente che la luce si vedeva a non più di due leghe (circa 4 Nm), mentre il vecchio fuoco con carbonella si vedeva fino a una distanza di 6 o 7 leghe (12-14 Nm).
Nel 1783 furono aggiunti ulteriori riflettori più grandi e fu resa più efficiente l’estrazione dei fumi, ma non si ebbero sostanziali miglioramenti. Quello stesso anno l’ingegnere navale francese Joseph Teulere (nel 1786 fu incaricato di alzare il faro di 20 m per migliorarne la visibilità) propose lampade con riflettori metallici parabolici capaci di concentrare in raggi paralleli la luce riflessa della sorgente luminosa posta nel fuoco.
Teulere applicò anche un sistema a orologio di rotazione dell’asse portante i riflettori ottenendo così anche la caratteristica luminosa del faro. Tale sistema era stato applicato per la prima volta circa vent’anni prima dall’ingegnere svedese Jonas Norberg (1711–1783) su alcuni fari della Svezia.

Un passo importante nell’evoluzione degli apparecchi luminosi fu quando il chimico svizzero François Pierre Ami Argand (1750 ­1803), fra il 1783 e il 1785, realizzò una lampada in cui l’antico becco della lucerna venne sostituito da un becco di forma nuovissima, costituito da uno stoppino posto tra due cilindri concentrici di metallo con la possibilità di essere alzato o abbassato. Il nuovo bruciatore si completava di un tubo di vetro cilindrico dalla base alla sommità.
La fiamma anulare della nuova lampada beneficiava così di una doppia aerazione, interna ed esterna e il vantaggio era ulteriormente accresciuto dal tubo che accelerava la velocità delle due correnti d’aria.
Il bruciatore Argand era in grado di produrre una luce più luminosa, di ben 5 volte maggiore dei bruciatori allora esistenti, più bianca e più stabile. Verso la fine del ‘700 la lampada di Argand venne inserita nei riflettori sferici, ben presto sostituiti da quelli parabolici capaci di una maggiore concentrazione anche se circa il 30% della luce della sorgente si perde dai bordi del riflettore. Alla maggiore luce si associava una minore produzione di fumo della lampada, il principale responsabile del decremento dell’efficienza dei riflettori.
Per altre notizie vedere l’articolo sulla lampada di Argan in questo sito.

Con le possibilità tecnologiche dell’epoca la forma parabolica si poteva ottenere solo a mano eventualmente con l’aiuto di una forma su cui veniva martellato un sottile foglio di rame. Seguiva una lucidatura e quindi un processo di rivestimento in argento come quello degli specchi. L’ambiente marino e l’inevitabile fuliggine, per quanto minima, rilasciata dalla lampada, minimizzata con l’inserimento di una canna fumaria nel locale della lanterna, costringevano a continue azioni di pulizia e lucidatura che conducevano ben presto alla perdita del rivestimento d’argento e quindi alla sostituzione del riflettore. Tra imperfezioni iniziali, graffi successivi, fuliggine, problemi ai bordi, un faro attrezzato con tali apparati aveva un rendimento molto basso.

Sempre in quell’ultimo scorcio del XVIII secolo si ebbe la prima applicazione di sistemi ottici, quali le lenti convesse, costituite esclusivamente da superfici rifrangenti con cui rendere parallela all’asse ottico la luce della sorgente posta nel suo fuoco, in maniera simile ai riflettori parabolici, ma eliminando la riflessione sostituita da superfici esclusivamente rifrangenti (apparati diottrici – un termine di origine greca che ha il significato di vedere attraverso) . Si ha notizia che un artigiano inglese del vetro Thomas Rogers realizzò delle lenti di 53 cm di diametro e 14 di spessore al centro che furono installate nel 1789 al faro di Portland Bill nel sud dell’Inghilterra.
Altri fari furono dotati di tale tipo di apparato ottico, noto come bull’s eye (occhio di bue), ma i risultati non furono incoraggianti sia per l’eccessivo assorbimento luminoso nella rifrazione dovuto al forte spessore sia per problemi ai bordi risolvibili con lenti decisamente più grandi di diametro e quindi di spessore, con conseguente ulteriore aumento dell’assorbimento.

Passo decisivo fu il sistema ottico degli apparati catadiottrici, combinazione di elementi rifrangenti e riflettenti, noti come lenti di Fresnel, inventati negli anni ’20 dell’800 dall’omonimo ingegnere francese, che si diffusero rapidamente ovunque per essere adottati, in varie forme e dimensioni, in tutti i sistemi di segnalamento luminoso.

Nel seguito e fino ai giorni nostri, il progresso è stato quello delle sorgenti luminose e degli apparati di controllo e gestione anche a distanza dei fari.

segnalamenti – sorgenti luminose

La prima fonte di segnalazione luminosa fu la catasta di legna posta in bracieri sulle coste o sui fari romani. Con il Medioevo, durante il quale i fari romani andarono in rovina e le segnalazioni erano semplici falò sulla costa, a partire dal 1100 in alcuni porti italiani vennero costruiti nuovi fari tra cui la Lanterna di Genova che diede l’impulso alla realizzazione di fari in tutta Europa.
Con il ‘600, mentre nell’Europa nord occidentale il carbone aveva quasi del tutto sostituito il legname, soprattutto nei luoghi con maggiore disponibilità, per la sua compattezza, più alta durata e una minore necessità di attenzione da parte dei custodi, nell’area mediterranea il legname era stato quasi del tutto sostituito da lampade ad olio o a candela.
Sarà però la seconda metà del ‘700 l’inizio dello sviluppo tecnologico dell’illuminazione dei fari ad opera soprattutto della Francia che già dalla fine del secolo precedente, per volere del ministro della Marina Jean-Baptiste Colbert (1619 – 1683), aveva migliorato la struttura dei sistemi di illuminazione costiera.

Nel corso dell’800 il legname prima e il carbone poi furono sostituiti dalle lampade ad olio vegetale ed animale. Il carbone resistette più a lungo per la grandezza del fuoco pur presentando una combustione estremamente variabile.

Un primo importante cambiamento si ebbe alla fine del ‘700 con l’invenzione del bruciatore di Argand che diede origine, fin dall’inizio del secolo successivo, a numerosi tipi di lampade ad olio adatte all’uso nei fari, integrate, prima, in riflettori e successivamente inserite nel fuoco delle nuove e rivoluzionarie lenti fresnel, dotate di congegni originati da una rapida diffusione di fari, principali e secondari, dovuta a una intensificazione dei traffici, quali dispositivi di riserva di olio di diversi giorni con regolazione dello stoppino e del flusso d’olio; lampade dotate di leve per allontanarle dalla loro posizione per facilitare le attività di manutenzione; lampade a due o più stoppini concentrici; lampade pneumatiche in cui l’aria in pressione, ottenuta con pompe a mano, consentiva il flusso di olio dal serbatoio del carburante sotto il bruciatore fino allo stoppino, ecc.

Un contributo all’evoluzione tecnologica dei fari la diede nella seconda metà dell’800 la produzione di cherosene dal carbone (in laboratorio nel 1846 – in uso nelle lampade dal 1862), noto come olio di carbone (coal oil), sostituito dagli anni ’70 con il più economico cherosene da petrolio, detto petrolio lampante, il cui processo di raffinazione era stato scoperto nel 1856. L’olio minerale prevalse su quello naturale, non solo per il suo minore costo, ma anche perché, nella spinta tecnologica suddetta, fu ideato un bruciatore, a stoppino multiplo, in grado di consumare con efficienza gli oli idrocarburici.
Oggi l’unico faro al mondo che ancora impiega tale combustibile è il faro di Elbow Reef alle Bahamas.

Tale tipo di bruciatore fu impiegato fino alla fine del secolo. soppiantato da un nuov tipo, quello ad incandescenza a vaporizzazione dell’olio minerale (in ingl. incandescent oil vapor lamp – indicato con l’acronimo IOVL) introdotto per la prima volta dal servizio fari francese nel 1898 al faro di L’Île Penfret. Il principio base è quello che l’olio viene vaporizzato e miscelato con aria compressa (una sorta di carburatore) e spruzzato in un bruciatore dotato di mantello, un originale dispositivo dell’inventore e chimico austriaco Carl Aurer von Welsbach (1858 – 19 29), conosciuto anche come reticella Auer, una rete in cotone rivestita di metalli che la rendono incombustibile e molto luminosa alla fiamma (da cui il termine incandescente). L’aria veniva compressa in un piccolo serbatoio a mezzo di una pompa a mano.

In contemporanea alla IOVL fece la comparsa la lampada ad acetilene, un idrocarburo gassoso scoperto nel 1836, costituita da due serbatoi sovrapposti, quello inferiore contenente carburo di calcio e l’altro contenente acqua. La reazione tra questi due componenti produce l’acetilene che, attraverso un condotto, giunge a un beccuccio posto sulla parte superiore della lampada, da cui fuoriesce bruciando, dopo essere stato acceso, con una fiamma particolarmente intensa.
Il sistema dell’acetilene permise la creazione di fanali e di numerosi fari in luoghi remoti e inaccessibili, privi di personale di custodia, richiedendo in genere solo una visita nel corso dell’anno necessaria alla manutenzione dei meccanismi e al rifornimento dei contenitori di stoccaggio.

Già in precedenza vi erano stati dei tentativi di utilizzo di combustibili gassosi come quelli derivati dal carbone e poi dal petrolio impiegati nell’illuminazione pubblica a partire dagli anni ’20 dell’800, ma il suo uso nei fari avvenne alla fine degli anni ’30 ed era possibile solo con una centrale di produzione prossima al faro. Nel 1884, alla morte del tedesco Julius Pintsch, i figli impiegarono il gas da petrolio che il padre aveva inventato, compresso in bombole, quale sorgente luminosa per vagoni ferroviari e boe di segnalazione.

Nel corso dell’800 le scoperte della ricerca scientifica trovarono un immediato sviluppo tecnologico nel campo elettrico da parte sia di nuove figure professionali che si consideravano più artigiani che non fisici applicati, sia degli stessi scienziati.
Una ricostruzione seppure breve e incompleta sull’argomento è necessaria per identificare almeno le tappe più significative dell’evoluzione dei principali manufatti e dispositivi elettrici introdotti nella gestione dei fari che troveranno sviluppo nel secolo successivo.

L’uso dell’elettricità per illuminazione ebbe inizio in via sperimentale con le lampade ad arco a carbone intorno alla metà dell’800. Prima di allora ci fu la pila di Volta (1800), l’accumulatore (1803), l’arco elettrico (1809), l’elettromagnete (1825), l’induzione elettromagnetica (1831). Quest’ultima scoperta, dovuta al chimico e fisico inglese Michael Faraday (1791-1867), che può brevemente riassumersi nel fenomeno fisico per cui un campo magnetico variabile genera una corrente elettrica in un conduttore, diede la possibilità ad abili inventori di creare dispositivi meccanici capaci di generare corrente elettrica, i generatori magnetoelettrici che a partire dal 1840 si affiancarono agli accumulatori nella metallizzazione elettrolitica e nel decennio successivo trovarono impiego negli impianti di illuminazione dei fari il primo dei quali fu uno dei due fari di South  Foreland (il luogo scelto successivamente da Guglielmo Marconi per i suoi primi esperimenti nelle trasmissioni radio oltre oceano) in Inghilterra dove nel 1857 fu installato un enorme generatore magnetoelettrico di ben 2 t , trascinato da un motore a vapore, in grado di alimentare un lampada ad arco di carbone. La macchina, progettata dal professore inglese di chimica Frederick Hale Holmes, ebbe un certo successo tanto da trovare applicazione su qualche altro faro anche se non molto tempo dopo la maggior parte di essi fu convertita con lampade a cherosene avendo sperimentato le difficoltà di controllo e i forti costi di gestione delle lampade ad arco.

Si evidenzia che uno dei maggiori studiosi di tale tipo di lampada fu l’inglese Hertha Marks Ayrton (1854 – 1923), laureata in matematica e studiosa di fisica ed ingegneria elettrica. Ella fece numerosi studi sull’arco elettrico (e non solo) proponendo alcuni accorgimenti migliorativi tra cui l’inserimento degli elettrodi di carbone in un’ampolla di vetro per ridurne il consumo. Una vita dedicata alla ricerca, impegnata nella famiglia e scontrandosi frequentemente con pregiudizi di istituzioni che poco spazio davano alle donne.

In quel periodo di continui progressi fece la sua comparsa la dinamo (1871), realizzata dal belga Zenobe Gramme (1826-1901), in origine una invenzione dello scienziato italiano Antonio Pacinotti (1841-1912).

La macchina risultò molto affidabile ed ebbe un grande successo commerciale perché il mercato da tempo attendeva un prodotto di tale qualità ed affidabilità che non soffrisse di surriscaldamento.

Con il nuovo secolo furono fatti numerosi progressi nelle macchine elettriche e un perfezionamento continuo delle lampadine ad incandescenza che, da una semplice lampadina con filamento di platino, brevettata da Thomas Alva Edison (1847-1931) intorno al 1880, raggiunse uno standard adatto per l’illuminazione dei fari marittimi intorno agli anni ’20 del ‘900. Si trattava di una lampada elettrica a incandescenza con filo di tungsteno, un’invenzione di inizio secolo, in atmosfera di argon con aggiunta di xeno in grado di fornire una maggiore luminosità e durata.

Con il XXI secolo, prima nei dispositivi minore di segnalamento luminoso poi nei fari, gli illuminanti elettrici sono stati in buona parte convertiti con sorgenti in tecnologia LED, che dalla scoperta negli anni ’60 del secolo scorso ad oggi ha fatto notevoli progressi e continua la sua evoluzione.
In Italia il primo faro italiano convertito è stato quello del molo San Vincenzo di Napoli nel 2016, nella stessa base dove nel 1911 nasceva il Servizio fari italiano sotto il controllo della Marina Militare.

lenti di Fresnel

Augustin-Jean Fresnel (1788 – 1827), dopo essersi laureato all’Ecole Polytecnique di Parigi in ingegneria, venne assunto dal Corps des Ponts nella progettazione di ponti e strade, dedicandosi contemporaneamente agli studi teorici e sperimentali sulla luce.

Dal 1714 l’Accademia delle scienze francese ogni anno offriva un premio alla migliore opera su un tema di natura applicativa scelta da un comitato. Il premio del 1818 venne assegnato a Fresnel su un saggio riguardante la teoria ondulatoria della luce.

Tale risultato diede l’occasione allo scienziato e politico francese François Arago (1786 – 1853) di proporre l’inserimento temporaneo di Fresnel nella Commission des Phares et Balises, istituita nel 1811 da Napoleone sotto la direzione del Corps des Ponts, di cui lo stesso Arago era membro dal 1813. Quando Fresnel entrò nel giugno 1819 il compito della Commissione era quello di esaminare eventuali miglioramenti nell’illuminazione dei fari.
Due mesi dopo fece la sua prima presentazione alla commissione con una memoria sulle lenti a gradini (lentilles à échelons) con cui si potevano sostituire i riflettori allora in uso. Un membro della commissione fece notare che l’idea non era nuova in quanto Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788), naturalista e matematico francese, nel 1748 aveva già proposto di molare una lente di vetro in gradini concentrici allo scopo di ridurne al minimo lo spessore.

Venne fatto però notare da altri che la versione di Buffon riguardava le lenti biconvesse mentre la versione di Fresnel si riferiva a una lente piano-convessa. Comunque la Commissione incaricò Fresnel di podurre un prototipo che venne realizzato nel marzo del 1820 dal costruttore francese di strumenti ottici François Soleil. Il prototipo era costituito da un pannello quadrato formato di ben 97 prismi lineari (non ad anello). La Commissione fu talmente ben impressionata che richiese un successivo prototipo costituito stavolta da otto pannelli quadrati di 76 cm di lato. Nell’aprile del 1821, durante uno spettacolo pubblico il prototipo fu confrontato con un riflettore dimostrando la sua superiorità.
Il passo successivo fu quello di progettare e far costruire dalla Saint-Gobain un sistema costituito da 8 pannelli ognuno corredato da un occhio di bue ed archi prismatici, con aggiunta superiormente e inferiormente di specchi allo scopo di raccogliere più luce della sorgente.

Il test ufficiale venne eseguito all’Arco di Trionfo il 20 agosto 1822. La luce fu osservata dalla commissione e da Luigi XVIII a 32 km di distanza. Al termine della dimostrazione l’apparecchio fu messo in deposito a Bordeaux per l’inverno, per poi essere montato in estate al faro di Cordouan sotto la supervisione di Fresnel. Il 25 luglio 1823 fu accesa la prima lente di Fresnel al mondo.

Nel corso degli anni successivi Fresnel perfezionò il sistema sostituendo gli specchi, responsabili di buona parte della perdita di luce, con prismi catadiottrici (capaci non solo di rifrangere ma anche riflettere la luce) nel 1825. Nel 1826 realizzò un ulteriore modello che non ebbe occasione di vedere applicato per la sopraggiunta morte da tubercolosi. Oggi Fresnel è ricordato per la sua lente, ma egli svolse prima di tutto un numero impressionante di studi di ottica che furono stimolo per i successivi scienziati.

Negli anni seguenti le lenti di Fresnel si diffusero nel mondo: Olanda 1833; Inghilterra 1835; Italia, Belgio e Norvegia 1837; Svezia 1840; Stati Uniti 1841; Danimarca 1842; Prussia 1845; Australia 1845; Grecia e Russia 1856.

Intensità luminosa – candele e fari

Per valutare l’intensità luminosa di una sorgente di luce (si tratta di un’energia emessa ogni secondo in una data direzione e secondo un cono di ben preciso angolo di apertura), si ricorre al confronto con una sorgente di riferimento (campione): in Francia si impiegava il becco Carcel (1800), la sorgente di una lampada ad olio azionata da un motore a orologeria inventata dall’orologiaio Bertrand Guillaume Carcel all’inizio del XIX secolo allo scopo di mantenere costante l’alimentazione dello stoppino (era una lampada costosa che solo pochi si potevano permettere); in Inghilerra era in uso la candela inglese; in Germania la candela Hefner (1884). Anche le unità di misura erano diverse: bougie fr; candle ing.; Kerze ted., tutte nel significato della nostra candela (dal lat. candēla, da candēre – splendere). Per la determinazione pratica ci si avvaleva di strumenti detti fotometri tra cui quello di Bunsen del 1840, uno dei primi, ideato dal chimico tedesco Robert Bunsen (1811-1899). Il principio di funzionamento si basava sulla impossibilità dell’occhio umano di stabilire, tra due sorgenti luminose, quella con la maggiore intensità di luce, mentre è capace di riconoscere la differenza delle loro proiezioni luminose su due superfici simili e dello stesso colore.

Per cercare di uniformare le misure dei vari Stati, alla Conferenza Internazionale di Parigi del 1883 venne adottato il Campione Voille (proposto nel 1881 e che sarà impiegato per circa un secolo fino al 1984), ben definito e non legato alla composizione della fiamma, dipendendo esclusivamente dalla luce emessa dal platino fuso in precise condizioni. Tuttavia, non essendo tale campione di facile realizzazione, si impiegava abitualmente il campione Vernon-Harcourt, detto anche candela decimale in quanto pari a un decimo del campione Carcel e alla ventesima parte del Campione Voille.

Nel 1909 la Commissione Internazionale di Fotometria (CIP), dopo aver definito il campione luminoso di una lampada elettrica a incandescenza, costruita e fatta funzionare secondo norme precise, decise che tutte le misure esistenti si sarebbero uniformate,ma il cambiamento sperato non avvenne. Nel 1921, la Commissione Internazionale dell’Illuminazione (CIE) decise di chiamare questa nuova unità candela internazionale. Non tutti i paesi aderirono così nel 1948 la Nona Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure (CGPM) definì la candela o nuova candela, l’unità di misura dell’intensità luminosa nel sistema internazionale delle unità di misura (SI) . Al decimo CGPM del 1954 venne introdotta la candela quale sesta unità fondamentale, dopo il metro, il kilogrammo, il secondo, l’ampere per l’intensità di corrente elettrica e il kelvin per la temperatura.

Nel 1967, il tredicesimo CGPM abrogò il termine nuova candela per consentire solo la parola candela (simbolo cd).

Per i fari marittimi hanno importanza le portate, ovvero le distanze alle quali i fari possono essere avvistati:
Portata luminosa (luminous range), la massima distanza alla quale la luce del segnalamento è visibile e che dipende dalla intensità luminosa (cd) della sorgente, dalle condizioni di visibilità dell’atmosfera e, naturalmente, dalla soglia di visibilità dell’osservatore. Non si tiene conto dell’altezza della sorgente in quanto essa può subire cambiamenti proprio legati alla sua posizione rispetto all’orizzonte: un faro basso sull’orizzonte potrebbe avere una portata luminosa maggiore in presenza di particelle di vapore acqueo a quote basse che disperdono il fascio luminoso rendendone visibile la struttura a maggiore distanza, oltre l’orizzonte. Un fenomeno noto in ingl. come loom of the light (loom è telaio) e nel nostro linguaggio marinaro come scopa.
Secondo le raccomandazioni IALA, la portata luminosa è determinabile con la formula di Allard (Allard’s law) proposta nella prima metà del ‘900 dall’omonimo fisico franceseM. Allard. Si tratta di una formula che lega l’illuminamento prodotto su una superficie normale ad una data distanza da una sorgente puntiforme di luce, l’intensità luminosa e il grado di trasparenza dell’atmosfera

Portata nominale (nominal range), secondo standard internazionale è la massima distanza dalla quale può essere avvistata una luce, quando la visibilità meteorologica (o trasparenza atmosferica) è di 10 miglia nautiche (corrispondente ad una trasmissione del 74%) e con un illuminamento all’occhio dell’osservatore di 2 x 10-7 lux di notte e 1 x 10-3 di giorno. Apposite tabelle permettono di correggere il valore di portata in relazione alla visibilità del momento

Portata geografica (geographic range): è la massima distanza dalla quale può essere avvistata una luce, limitata solo dalla curvatura della terra e dalla rifrazione nell’atmosfera e dalle altezze dell’osservatore e della luce.

Un’idea della visibilità notturna dei fari del ‘700 si può ricavare dal diario compilato dall’ingegnere britannico John Smeaton (1724 – 1792) durante la costruzione dell’omonimo faro (Smeaton’s Tower) nel 1759, in cui si legge che quando di notte si trovava a bordo del Neptune Buss, la nave con cui percorreva la distanza di 11 miglia da Plymouth a Eddystone (l’originaria posizione della Torre fino al 1870 e dove fu poi realizzato nel 1882 il faro di Eddystone, ancora oggi attivo), dalla costa di Plymouth poteva vedere la luce del suo faro con una intensità luminosa paragonabile a una stella di magnitudine 3 o 4 (le stelle più deboli visibili nei centri urbani). A ciò dobbiamo aggiungere che all’epoca le luci erano fisse perciò meno distinguibili.

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